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Quando i ricordi svaniscono

La storia di Fiore e la sua mamma, tra dolore e resilienza

Pensavo di poter cambiare le cose, di farla guarire. Invece, dopo un’iniziale sensazione di totale smarrimento mista a paura di perderla per sempre, nonostante fosse ancora viva, mi sono svegliata una mattina e ho capito. Potevo solo accompagnarla con dolcezza nella sua nuova vita”. Sedute sul divano, così vicine che potevamo essere scambiate per amiche di lunga data, dopo qualche minuto di intervista, Fiore mi gela e mi scalda il cuore nello stesso tempo con quelle parole. Cinquant’anni, figlia unica che da quasi un anno si prende cura, insieme a suo papà, di sua mamma Giulia, 77 anni e affetta da demenza senile.

Fiore: un nuovo nome, una nuova vita

Fiore non è un nome di fantasia o, meglio, non la mia, ma quella della sua mamma. Giulia non riesce più a ricordare bene i nomi delle persone, neanche quello di sua figlia. “Utilizza quelle che lei chiama scorciatoie. Si basa sulle emozioni che la persona le suscita in quel momento. Recupera un nome facile per lei e per me – sussurra Fiore sorridendo – ha deciso quello. Mi piace, anche se non sempre lo ricorda, è un simbolo di rinascita, così almeno voglio leggerlo. Nuovo nome e nuovo inizio nel nostro piccolo mondo parallelo”.

Quando ti sei resa conto che tua madre stava manifestando i primi segnali? Quali sono stati i primi sintomi che hai notato?

Questa, forse, è la parte più difficile da spiegare. Mia mamma è sempre stata una donna molto intelligente, orgogliosa, scaltra e indipendente. Quindi, le prime avvisaglie è riuscita a camuffarle con maestria.

Minimizzava col sorriso alcune sue piccole mancanze. Ha iniziato confondendo i giorni della settimana. Diceva che “in pensione tutti i giorni sono uguali, sono fortunata, per me può essere sempre domenica”. In tutta fretta, cambiava discorso. Col senno di poi, pensandoci bene, anche le nostre chiacchierate al telefono, soprattutto ultimamente, si limitavano solo a raccomandazioni molto semplici e sbrigative da parte sua. Poche parole, sempre le stesse. Quando invece le raccontavo qualcosa di un po’ più complicato, sembrava non riuscisse a seguire il filo del discorso e, quando interveniva, sembrava andasse fuori tema.

Ho lasciato correre, non ho approfondito subito, mai avrei pensato che dietro ci fosse un problema importante. Pensavo che fosse normale alla sua età, che non avesse più tanta voglia di star dietro ai problemi.

Chi era tua mamma prima della malattia?

È sempre stata una gran lavoratrice, instancabile – questo l’ho ereditato da lei – sempre disponibile con tutte le sue colleghe. È stata a contatto con molte persone, ma da quando è andata in pensione, parliamo di 20 anni fa, si è rinchiusa in casa. Le dicevo che non le faceva bene, ma lei mi rispondeva “non è che non ho voglia di andare a fare una passeggiata, ma ho tantissime cose da fare. E poi in casa sto proprio bene, non vedevo l’ora di andare in pensione per potermela godere un pochino”.

Era la frase che continuava a ripetermi quando la sollecitavo ad avere una vita sociale al di fuori delle sue quattro mura. Continuavo a dirle di stare all’aria aperta, che era pericoloso attaccarsi al televisore tutto il giorno e rimuginare su vecchi litigi e incomprensioni, che avrebbe dovuto fare un po’ di attività fisica per mantenere in movimento ossa e muscoli. Le regalavo libri, settimane enigmistiche e sudoku. Le consigliavo di tenere allenato il cervello, ma lei niente, non mi ha mai ascoltata e non ha mai abbandonato la sua nuova zona di comfort che, adesso, è diventata la sua gabbia.

C’è stato un evento scatenante?

Non so se sia da considerarsi l’esordio, non lo capiscono neanche i medici. Neanche un anno fa, una sera, mio papà ha dovuto chiamare l’ambulanza perché mia mamma ha avuto una fortissima cefalea. Non ha mai sofferto di mal di testa. Quando sono arrivati gli operatori del 118, papà mi dice che “la mamma non ha risposto ai comandi per qualche minuto. Guardava nel vuoto, era come incantata e intontita. Poi, pian piano, si è ripresa”. Pensavamo ad un’ischemia transitoria, ma i controlli hanno scartato quell’ipotesi. Da quel momento in poi è stato tutto come un volo in picchiata.

Inizialmente abbiamo brancolato nel buio. Il suo medico di base ci ha guidati e abbiamo approfondito il dolore forte alla testa, l’astenia improvvisa, l’inappetenza, il mal di stomaco e… niente! Non aveva niente! Tutti gli esami erano perfetti. Uno potrebbe pensare che il pericolo, a quel punto, fosse scongiurato, ma io sentivo che c’era qualcosa di molto più profondo, qualcosa che lei comprendeva ma non riusciva a comunicare. Mia mamma aveva tanta paura, ne avevamo tutti.

Ha iniziato ad avere attacchi d’ansia perché non ricordava le cose, le parole, confondeva le persone e i luoghi. Dopo il sonnellino pomeridiano andava in confusione. Chiedeva “in che casa mi avete portato questa volta? Dove sono i miei maglioni, dobbiamo andare a prenderli, tra poco arriva l’inverno”. Ha iniziato a straparlare, a vedere persone che non esistevano e a confondere mio papà con “un infermiere tanto gentile che mi accompagna in bagno, che mi fa da mangiare, mi mette a letto e corre appena sente che ho bisogno”. Chiedeva dove fosse andato mio nonno, perché non veniva a pranzo. Avevo il terrore di dirle che il nonno era morto da trent’anni.

Abbiamo contattato un neurologo che, dopo la prima visita a domicilio, ci ha consigliato di andare in un centro specializzato per demenze e fare una visita neuropsicologica con test cognitivo. Un disastro. Siamo poi passati ad altre visite specialistiche e la diagnosi è stata una doccia fredda: Disturbo Neurocognitivo Maggiore di natura prevalentemente neurodegenerativa con stati ansioso-depressivi e disturbo somatoforme. Se penso che siamo solo all’inizio mi prende un po’ di sconforto.

Ci sono dei momenti particolarmente critici che ricordi?

Ce ne sono tanti, ma uno, il primo, è stato il più critico perché non ero preparata. Non usciva di casa da circa due mesi e l’ho portata a fare una visita gastroenterologica in un ospedale vicino a casa sua, lo conosceva benissimo. Al ritorno ha iniziato a chiedere che strana strada stessi facendo per tornare a casa. Siamo scese dalla macchina, abbiamo fatto due passi e, davanti al portone, ha puntato i piedi e mi ha guardata spaventata. “Io voglio andare a casa mia, la casa dove ho dormito ieri notte”.

In quel momento sono andata in crisi. Quella era casa sua, ma non la riconosceva. La tenevo stretta per un braccio, avevo paura scappasse dalla paura. Ero immobilizzata, non mi uscivano le parole di bocca. Poi, non so, forse l’istinto mi ha fatto inventare una storia che le è piaciuta e, dopo qualche minuto, sono riuscita a portarla dentro. Mi tremavano le gambe.

Come affronti la situazione emotivamente, giorno per giorno? Ci sono momenti in cui ti senti sopraffatta?

Direi di sì. A volte mi sento persa. Cerco di stare dietro alle sue crisi. All’inizio della malattia è psicologicamente molto pesante anche per loro. Nei momenti di lucidità si rendono conto di quello che sta accadendo. Non sono razionali, ma sicuramente capiscono. Quello che stiamo vivendo con mia mamma adesso è un momento molto complicato. Spesso mi dice “ricorda ai dottori che mi devono far tornare la memoria, digli di fare veloce che ho tante cose da controllare sul computer e non mi ricordo nemmeno una password!”.

In quei momenti il cuore mi si spezza. Cerco sempre di farle comprendere con dolcezza che va tutto bene, che anche se non si ricorda alcune cose non importa. Le dico che ci saranno altri ricordi da mettere nel cassetto e che saranno belli ugualmente. Poi, tutto cambia improvvisamente e, mentre mi ascolta, per lei divento un’altra persona, mi dà del lei o mi chiede come stanno le bambine. Io non ho figli.

In che modo la relazione con tua madre è cambiata da quando è stata diagnosticata la malattia?

Potrebbe sembrare un paradosso quello che sto per dire, ma da quando è iniziato il tutto il nostro rapporto è migliorato. Lei è molto più dolce, si apre di più. Certo, a volte è parecchio aggressiva e molto triste, ma chi non lo sarebbe? A me piace il nostro piccolo mondo parallelo fatto di cose ripetute all’infinito, di domande infantili, di paure da contenere, di coraggio da infondere, ma anche di tante risate per cose banali. È un privilegio potersi dedicare del tempo con una persona alla quale vuoi bene e parlare di frivolezze sapendo che per lei il tempo è relativo e che apprezza anche solo la tua disponibilità.

 



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Come gestisci la cura di tua madre? Hai qualcuno che ti aiuta, o ti occupi di tutto da sola?

Io sono molto fortunata. Mio papà è un vero angelo sulla terra. Non vuole nessun aiuto, per adesso chiaramente. Un domani si renderà conto che, nonostante provi un forte senso di colpa al solo pensiero, assolutamente ingiustificato aggiungerei, dovremo affidarci a qualcun altro per la cura di mia mamma. Per adesso è ancora gestibile. Con noi si sente al sicuro, ma prima o poi dovremo affidarci a professionisti che si occupino della sua mente e del suo corpo. Ha bisogno di stimoli, quelli giusti.

Quali sono le sfide pratiche più grandi che affronti nella gestione quotidiana della malattia di tua madre?

Ce ne sono tantissime. Le più importanti sono la somministrazione dei farmaci – che non è in grado di prendere da sola -, la cura della sua persona e l’alimentazione. Le è stato severamente vietato di avvicinarsi ai fornelli. Tempo fa si è dimenticata sul fuoco la pentola con dentro l’acqua per il riso. Ovviamente le cose bisogna ripetergliele tutti i giorni, altrimenti si dimentica.

Nonostante le difficoltà, ci sono momenti di gioia o di connessione che hai vissuto con tua madre durante questo percorso?

Tutti i giorni. Mi guarda come non mi ha mai guardata, come una bambina guarda la sua mamma. Si sono invertiti i ruoli e questo è davvero commovente. Non mi sono mai sentita di supporto per lei. Il suo carattere forte ha sempre fatto da barriera. Ora i “muri” sono crollati. Quando riesco a farla visitare dai dottori – soffre anche di stati d’ansia e depressione che le impediscono di socializzare e di vedere estranei – lei mi guarda sempre prima di rispondere e quando, alla fine di ogni visita, le dico che è stata bravissima, lei si emoziona tantissimo.

Come riesci a prenderti cura di te stessa mentre ti prendi cura di tua madre? Hai trovato delle strategie per gestire lo stress o l’esaurimento emotivo?

Si certo. Sono laureata in psicologia e credo fermamente nel supporto degli specialisti, soprattutto in questi casi, impossibili da gestire in autonomia. Sono situazioni troppo pesanti che rischiano di travolgerti e sconvolgerti fino a non poter essere più di aiuto a nessuno. Ho incontrato altre persone che curano i genitori da molti anni e che hanno sperimentato il burnout. È una condizione tremenda, solo chi lo prova può capirlo. Mi impongo di ritagliarmi anche del tempo per fare sport, passeggiate all’aria aperta e meditazione. Leggo tanto, mi rilassa.

Se tua madre fosse in grado di parlare con te oggi come prima, cosa pensi ti direbbe?

Me lo chiedo spesso. Forse “grazie”. Il suo vissuto non è ricco di persone che si sono prese cura di lei, nonostante provenga da una famiglia molto numerosa. A volte mi sorride ed è proprio in quei momenti che penso mi stia comunicando che è fiera di me e che apprezza quanto io stia facendo per lei.

C’è un messaggio che vorresti trasmettere a chi sta leggendo questa intervista, magari per sensibilizzare o far comprendere meglio la realtà della malattia?

Potrei scrivere un libro tante sono le cose che vorrei dire. Comincio con il tranquillizzare chi si trova nella mia stessa situazione dicendo che non siamo soli, che ci sono tante strutture che offrono il loro supporto sia a livello medico che psicologico. Che non si deve avere paura, ci si deve fidare e affidare. È vero, non possiamo guarirli, ma il viaggio può essere comunque bello. Si entra in un nuovo mondo, un mondo parallelo che possiamo condividere con loro. Bisogna avere pazienza e coraggio. La strada è lunga e con tantissimi ostacoli, tutti superabili però.

Sostenere pazienti e caregiver familiari

Questa commovente intervista ci ricorda, da una parte, l’importanza della ricerca sulla neurodegenerazione e, dall’altra, quella di sostenere pazienti e caregiver familiari con iniziative in grado di migliorare la qualità della vita, come AIDA Alzheimer patients Interaction through Digital and Arts, coordinato da Fondazione Patrizio Paoletti e che coniuga innovazione museale, tecnologica e artistica per il benessere delle famiglie che affrontano la sfida delle patologie neurodegenerative. Superare gli ostacoli si può, come ci suggerisce Fiore, insieme.

 


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