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L’importanza della ricerca nel trattamento della malattia di Alzheimer

Intervista a Michele Pellegrino, ricercatore RINED

Con un’intervista al nostro ricercatore Michele Pellegrino, scopriamo le importanti novità della ricerca neuroscientifica e dei progetti di Fondazione Patrizio Paoletti sulla malattia di Alzheimer.

Secondo i dati del Ministero della Salute attualmente in Italia si stima siano presenti 600.000 persone con malattia di Alzheimer, una cifra impressionante che, secondo gli esperti, è destinata a crescere. Sappiamo che la ricerca su questa malattia è ancora in corso e c’è ancora molto da capire, ma possiamo parlare oggi di fattori protettivi? Come possiamo allenarci per creare quantomeno le migliori condizioni per il nostro cervello?

Le cifre sono ancora più impressionanti se si pensa che nel mondo si arriva a circa 44 milioni di persone affette e che questa cifra sarà più che triplicata entro il 2050 a causa dell’invecchiamento della popolazione (World Alzheimer Report, 2019). Nonostante molte scoperte sulla natura e le cause di questa malattia, dei trattamenti per curarla ancora non esistono per cui è estremamente importante trovare modi per rallentarne il decorso e “proteggere” gli individui più a rischio. Un concetto molto utile a riguardo è quello di “riserva cognitiva” chiamata così in quanto permette di avere una “riserva” a cui il cervello ed il corpo possano attingere per ritardare l’insorgere della malattia. Diversi elementi sono associati a una maggiore riserva cognitiva, come il livello di istruzione, le attività lavorative, le attività ricreative, le attività fisiche e l’integrità della rete sociale.

Uno studio condotto da Stern e colleghi (1994) ha indicato che gli individui con un basso livello di scolarizzazione e un basso livello di realizzazione professionale avevano un rischio circa due volte maggiore di sviluppare l’Alzheimer. Nello stesso modo, un altro studio ha indicato come i soggetti più impegnati in attività piacevoli nel tempo libero avessero un rischio minore di sviluppare la malattia. Per cui in generale “tenersi attivi” durante tutto l’arco di vita può costituire un fattore protettivo e un obiettivo di auto-educazione non da sottovalutare.

Secondo la ricerca neuroscientifica, in che termini possiamo parlare di ambienti interiori ed esteriori che supportano la prevenzione o che invece sono sfavorevoli?

Esclusi i molteplici fattori protettivi e di rischio genetici sui quali, al momento, non è possibile agire in maniera diretta, un ambiente stressante, ad esempio, risulta sicuramente un fattore di rischio importante e questo vale sia per quanto riguarda l’ambiente esteriore che interiore. Infatti, altri fattori di rischio da tenere in considerazione sono la cattiva alimentazione e ciò che ne consegue (i.e., obesità, problemi cardiaci), mancanza di un ciclo di sonno regolare ed il fumo. Poiché, come già detto, nessun intervento farmacologico attuale è in grado di modificare i meccanismi fisiopatologici legati allo sviluppo di questa devastante malattia, l’adozione di abitudini salutari come l’esercizio fisico, la dieta e la stimolazione cognitiva costituisce un’importante strategia di gestione clinica per prevenire o posticipare il declino cognitivo.

Per cui possiamo considerare i fattori protettivi come qualcosa che si può apprendere e i fattori di rischio come abitudini da imparare ad evitare: anche in una malattia complessa e grave come l’Alzheimer, buone abitudini di vita e attiva prevenzione possono posticipare e rallentare il decorso della demenza.

Quali sono le ultime novità dalla ricerca neuroscientifica e psicopedagogica di Fondazione Patrizio Paoletti, i progetti in corso, le pubblicazioni scientifiche per approfondire?

Attualmente nell’Istituto di Ricerca per le Neuroscienze, l’Educazione e la Didattica stiamo lavorando a un progetto europeo Erasmus+ chiamato Alzheimer patients Interaction through Digital and Art (AIDA) con diversi partner internazionali, di cui la Fondazione Patrizio Paoletti è partner principale. Il progetto AIDA coinvolge diversi ambiti di ricerca e pratica, ovvero l’ambito clinico, l’ambito museale e artistico e l’ambito digitale e tecnologico. Il progetto AIDA mira a creare una metodologia e delle procedure innovative in questi tre campi. In particolare, l’obiettivo di AIDA è di utilizzare opere d’arte e ambienti museali per promuovere il benessere e l’autostima non solo dei partecipanti affetti dalla malattia di Alzheimer ma anche dei loro caregiver.

Attraverso visite guidate e sessioni di art-making gli sperimentatori e il personale dei musei stimoleranno la comunicazione e l’inclusione dei partecipanti andando a promuoverne l’autoefficacia e il sentirsi inclusi. Infine, ogni partner raccoglierà le testimonianze dei partecipanti che verranno analizzate e poi caricate in un ambiente totalmente virtuale (Mozilla Hubs) per creare un vero e proprio “museo virtuale” di AIDA in cui i partecipanti ed i loro familiari possono rivedere e ricordare le esperienze fatte.

A quali progetti di ricerca stai lavorando in questo momento?

In questo momento sono coinvolto nel progetto AIDA e mi sto prevalentemente occupando del supporto scientifico ai partner provenienti dagli ambiti artistico-culturali e mi sono occupato precedentemente della review di tutta la letteratura scientifica sull’argomento Alzheimer e interventi di natura artistico-culturale. Sto conducendo, inoltre, uno studio con l’elettroencefalogramma per esaminare gli effetti di una stanza di immersione sensoriale sul funzionamento dell’attenzione.

Perché è importante per te oggi la ricerca di FPP, quindi perché è importante sostenerla?

L’Istituto di Ricerca per le Neuroscienze, l’Educazione e la Didattica (RINED) della Fondazione Patrizio Paoletti si occupa da anni di ricerca applicata nell’ambito neuroscientifico e psicopedagogico. Penso che l’interesse nell’applicazione diretta dei risultati delle ricerche nella didattica, nella vita di tutti i giorni e, in generale, nella società sia fondamentale per generare cambiamenti positivi. Vorrei però specificare che, a priori, tutta la ricerca è sempre importante e va sempre sostenuta, perché anche i progetti di ricerca che sembrano meno “pratici” o, in altre parole, di ricerca “pura” teorica hanno un valore intrinseco e risultano poi diventare comunque di beneficio alla società e alle persone.


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