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Cos’è il dismorfismo corporeo?

Dalla lotta con lo specchio alla gentilezza verso se stessi

Nella Giornata Mondiale della Gentilezza, parliamo dell’importanza di essere gentili con noi stessi, anche nel momento in cui ci guardiamo allo specchio. Osservarsi e non sentirsi completamente soddisfatti della propria immagine è abbastanza comune. La ricerca scientifica spiega, tuttavia, il ruolo centrale delle credenze e delle narrazioni del sé, nello sviluppo di forme di dismorfismo corporeo. Ne parliamo con la Dott.ssa Antonella Tramacere, ricercatrice del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi Roma Tre e relatrice di I.C.O.N.S. “Muoversi verso la Pace”.

Il nostro cervello allo specchio

Che cosa accade nel nostro cervello quando ci guardiamo allo specchio? Le neuroscienze cosa ci dicono?

Lo specchio è sempre stato un oggetto molto particolare per l’essere umano, perché è foriero di tantissime risposte emotive: fascinazione, curiosità, ma anche terrore. Una ragione è che noi, in base alla nostra anatomia, non siamo abituati a vedere il nostro volto direttamente. Al massimo, possiamo specchiarci negli occhi degli altri. Prima che lo specchio, per come lo conosciamo oggi, si diffondesse nella nostra società, gli umani probabilmente si osservavano nei laghi o su altre superfici metalliche.

Il mito di Dioniso ci dice proprio che già allora, quando lo specchio ancora non esisteva, c’era la percezione del potenziale ambiguo e pericoloso dello specchio. Lo specchio ci offre infatti un nuovo strumento di conoscenza, ma ci tende anche delle trappole: si può rimanere ossessionati con il proprio riflesso, vi si può affogare dentro, si può naufragare nelle difficoltà del rapporto che lega noi all’ immagine di noi stessi. Oggi le neuroscienze confermano quello che la filosofia e la psicologia da tanto tempo hanno teorizzato: l’incontro con la nostra immagine allo specchio è un incontro con l’altro da sé.

Nello specchiarsi, l’essere umano impara (perché il riconoscersi allo specchio non è un processo automatico, ma il risultato di un apprendimento) a percepirsi dall’esterno, a oggettivarsi. E questo processo di oggettivazione, per quanto sia una capacità cognitiva molto rilevante per la vita umana, è anche una potenziale trappola. Perché implica la consapevolezza di vedersi dall’esterno e di percepirsi come gli altri ci percepiscono. In questa consapevolezza si nasconde la paura del paragone con gli altri, di vedersi in un modo che non si conforma ai nostri desideri, a come ci vorremmo, o alle aspettative della società, a come dunque ci vorrebbero gli altri.

Oggi le neuroscienze ci dicono che il nostro cervello ci permette di percepire l’altro, il viso dell’altro, il corpo dell’altro, i sorrisi, le emozioni dell’altro, come se fossero parzialmente le nostre. Questo ce l’ha insegnato la scoperta dei neuroni specchio, su cui ho lavorato sin dall’inizio della mia carriera. I neuroni specchio, una grandissima scoperta che ha rivoluzionato il nostro modo di concepire la mente, ci dicono questo: quando percepiamo qualcun altro sorridere, in noi si attivano una serie di meccanismi neurofisiologici di rispecchiamento, che ci permettono di partecipare al sorriso e alle emozioni dell’altro.

La mia ricerca si focalizza sul ribattimento di questa prospettiva. Quando noi percepiamo noi stessi allo specchio, stiamo risuonando con noi stessi. Stiamo percependo la nostra immagine allo specchio come se fosse parzialmente altro da noi. E di conseguenza si possono instaurare diversi meccanismi di rispecchiamento con noi stessi. Meccanismi che sfuggono alla nostra coscienza, al nostro controllo e alla nostra conoscenza diretta.

Queste scoperte costituiscono il punto di partenza, non solo della mia riflessione teorica, ma anche di una sorta di archeologia, un’indagine storico-filosofica della propria identità, che può essere fatta al fine di comprendere i significati che sono presenti e sedimentati fra noi e il nostro riflesso.

Il dismorfismo corporeo

Cos’è il dismorfismo corporeo e qual è la sua diffusione?

Io non sono una psicologa, ma una filosofa della psicologia. Quindi la mia ricerca si nutre dei dati sui disturbi del sé, come il dismorfismo corporeo. Per la mia riflessione, il dismorfismo corporeo è interessante perché è un disturbo che, come dice la parola stessa, deriva da dys ,“alterato” o “non normale”, e morphé, ovvero “forma” o “struttura”, quindi si riferisce a una “distorsione” o “alterazione” percepita del proprio aspetto. Le persone che sono affette da questo disordine hanno paura di vedersi brutti, deformi, in un modo che altre persone non percepirebbero. Vedono delle deformità, dove molto probabilmente queste deformità non ci sono.

È interessante notare che oggi questo disordine colpisce un numero sempre crescente di persone. Parlando del disordine psicopatologico grave, si tratta di almeno una percentuale che va dal 3 al 6% della popolazione. Però, se consideriamo anche forme più lievi (le cosiddette preoccupazioni dismorfobiche che, pur essendo diffuse, non raggiungono necessariamente i criteri diagnostici per il disturbo), queste colpiscono un numero molto più alto di persone e che, in base a diverse ricerche, può coinvolgere dal 10 al 20% della popolazione: tantissimo.

Nella dismorfia le persone, non solo si vedono brutte, deformi, in modi che non rispecchiano come gli altri le percepiscono, ma possono presentare altri sintomi, comportamenti e abitudini. Spesso passano ore davanti allo specchio, a controllare le loro presunte deformità e bruttezze. Cercano di provare escamotage o strategie per nascondere o camuffare le parti del corpo che percepiscono come sbagliate o inaccettabili. In alcuni casi, essi possono anche sviluppare atteggiamenti aggressivi e violenti nei confronti di queste parti del proprio corpo. Possono cominciare a sognare o mettere in atto tentativi di sabotaggio e lesione. Nei casi più gravi, queste persone possono arrivare a tagliarsi, a toccare compulsivamente puntini, parti del corpo, schiacciare punti neri, brufoli, piccole imperfezioni, tanto da ferirsi in modo potenzialmente pericoloso.

Ecco, questo tipo di fenomeni chiama in causa non solo il lavoro cruciale della psicologia clinica, ma anche della filosofia che può fornire spunti utili nel capire perché non ci piacciamo e quali sono le dimensioni dell’io implicate in questo processo.

Dismorfismo e adolescenza

Il dismorfismo corporeo ha un impatto maggiore in alcune fasce di popolazione o in alcune fasi specifiche della vita?

So che la ricerca si è concentrata moltissimo sugli adolescenti. Non perché gli adolescenti siano gli unici a mostrare questo tipo di disturbi o preoccupazioni. Il concentrarsi sulla fase adolescenziale dipende dal fatto che molto spesso è l’adolescenza il periodo in cui questo tipo di problemi emerge. Inizialmente, si pensava che le preoccupazioni per il proprio aspetto riguardassero solo gli adolescenti e soprattutto le ragazze. Oggi si sa che anche i ragazzi sono molto colpiti e vulnerabili al dismorfismo e che anche le persone adulte lo sono.

L’adolescenza è un periodo molto delicato della vita, in cui non solo ci sono vari sconvolgimenti fisici e ormonali ma c’è anche il desiderio di arrivare a un’indipendenza dalla famiglia, dove di norma ci si sente accolti e accettati. E di arrivare a essere integrati nel mondo esterno, attraverso meccanismi che potrebbero tradursi in conformismo, dove le dinamiche sociali sono più complesse e la competizione e lo stress per raggiungere l’accettazione sono più alti. 

Dismorfismo e alimentazione

Come si relaziona il dismorfismo corporeo con i disturbi dell’alimentazione?

Anche qui, riporto i risultati ottenuti da colleghi e colleghe impegnati sul campo, su cui vi ragiono come filosofa, nonostante non sia impegnata direttamente nella ricerca clinica. Nei casi gravi il dismorfismo è spesso connesso con disturbi alimentari. Le persone che sono molto attente e preoccupate per il proprio corpo molto spesso hanno disturbi alimentari: mangiano troppo o troppo poco, oppure sono ortoressici e tendono a controllare in maniera eccessiva quello che mangiano, sviluppando un rapporto patologico con il cibo.

Gli esperti dicono che notare delle problematiche a livello alimentare può spesso costituire un segnale di un disturbo dismorfobico o comunque un disagio che riguarda l’immagine di sé. È pure vero che le cose possono essere indipendenti l’una dall’altra. L’impressione è che il disturbo dismorfofobico non sia mai isolato. Molto spesso è la punta di un iceberg di disagi che riguardano altre dimensioni della persona e che andrebbero approfonditi. Non è un disturbo che riguarda semplicemente l’apparenza, il proprio corpo o la percezione di sé: è qualcosa che è connesso a dimensioni più profonde dell’essere umano.

Dismorfismo e relazioni

Il dismorfismo corporeo può influire sulle relazioni e sulla socialità?

Questo disturbo molto spesso ha conseguenze nei rapporti interpersonali e in come le persone riescono a navigare il loro ambiente sociale e questo mostra come la formazione dell’identità sia radicata nei processi di sviluppo sociale. Le persone con con dismorfie corporee faticano a uscire di casa, a concentrarsi su quello che fanno, perché hanno continue intrusioni riguardo alle loro presunte deformità. Di conseguenza, non riescono a vivere anche i loro rapporti sociali in maniera soddisfacente.

Quando una persona ha paura di essere brutta, di non essere accettabile, di essere poco piacevole, essa rumina continuamente sulle sue deformità che vanno ad interferire con la fluidità delle dinamiche interpersonali. Le persone che non si piacciono tendono ad avere pensieri intrusivi proprio mentre stanno interagendo con gli altri. Oppure quando devono proiettarsi in un progetto, in un programma, in un esame, in qualsiasi interazione con il mondo esterno. Questo continuamente non essere presenti a sé stessi, concentrarsi continuamente su quello che non va di sé, diventa invalidante. I dati dicono che le persone che ne soffrono hanno problemi al lavoro, hanno poco successo in ambito scolastico e non riescono ad essere soddisfatti delle loro interazioni familiari o romantiche con gli altri in generale.

La pelle

La pelle è un po’ il confine e il ponte fra noi e il mondo. Qual è il ruolo della percezione delle sue imperfezioni o rughe in questo disturbo?

Nella mia ricerca, mi sto concentrando molto su questo aspetto. Perché la dismorfia riguarda più spesso preoccupazioni per certe parti del corpo e non altre? La pelle è molto spesso coinvolta. Perché essa agisce non semplicemente come un confine fisico tra noi e il mondo esterno, ma diventa un campo di battaglia emotivo e psicologico. Dove spesso si concentrano le insicurezze profonde della persona. La pelle per chi soffre di preoccupazioni dismorfobiche rappresenta simbolicamente la propria vulnerabilità, perché è il biglietto da visita dell’immagine sociale, del corpo vivo che si presenta agli altri.

Per esempio, le rughe possono essere viste come cicatrici inaccettabili. I brufoli e i pori come segni che minacciano l’ideale di perfezione o di bellezza che il soggetto cerca di incarnare e raggiungere. In questo senso, la pelle e le distorsioni che si percepiscono sulla pelle riflettono, non solo le preoccupazioni estetiche, ma anche la fragilità dell’identità e dell’io sociale, che è sempre terreno di potenziali ostacoli, problemi, disagi.

Tuttavia, non è soltanto la pelle ad essere coinvolta. Visto che la società propone certi canoni estetici o ne esalta alcuni piuttosto che altri, spesso si tende a disprezzare aspetti o forme fisiche che non si conformano a tali canoni, coinvolgendo diverse parti del corpo: il naso, i muscoli, i capelli. Potenzialmente, non c’è limite alle preoccupazioni dismorfofobiche che un individuo può sviluppare.

Social network e dismorfismo

I social network, la cultura dei selfie o dei filtri possono contribuire al diffondersi di questa tipologia di disturbi? 

Qui ho un’idea forse un po’ diversa da quella che spesso si sente o si legge sui giornali o su alcuni mezzi di informazione. Molti pensano che la cultura dei selfie o dei social media possa essere la causa del diffondersi di questi disturbi o in generale del non piacersi. Molti credono che i continui confronti con le altre persone che i social offrono – con i successi che gli altri paventano, la loro bellezza filtrata, le ricchezze che mostrano – possano far sorgere preoccupazioni dismorfobiche e disturbi ad esse associati. Io credo che non sia del tutto così. Credo che i social, la cultura dei selfie e i filtri possano solo esacerbare o canalizzare un disagio che è comunque preesistente nella persona.

Spesso è un disagio che nasce in altre dimensioni dell’essere – che possono essere affettive, familiari, sociali – e che poi trova spazio nel paragone con gli altri e nel sentirsi inadeguati dal punto di vista estetico. Proprio perché si proietta sulla superficie quello che è invece un disagio interno. La mia ricerca si concentra proprio su questo: cercare di capire perché e come un’attitudine negativa verso sé stessi, un’idea di sé prevalentemente negativa, riesca ad emergere in forma di distorsione della percezione dell’immagine allo specchio. Voglio capire come e perché la percezione del nostro corpo e viso dipende dalle nostre credenze, da pensieri e narrazioni su noi stessi.

Credo sia importante capire come il pensiero crea effetti sul nostro corpo e sulla nostra percezione di esso. Com’è possibile che l’etica in senso ampio, intesa come ethos, come abitudini comportamentali, interagisca e influenzi la percezione estetica? La ricerca sui meccanismi di rispecchiamento può illuminare e illustrare come varie dimensioni nell’organismo interagiscono tra di loro. Per esempio, le nostre azioni, i nostri pensieri, le nostre posture, le espressioni facciali e la percezione degli stessi possono essere influenzate dalla nostra attitudine verso noi stessi, facendoci entrare in un circolo vizioso di negatività. Quando ci specchiamo, la nostra idea di noi stessi può risuonare su di noi in maniera negativa: è come se venissimo contagiati dalle emozioni che abbiamo interiorizzato, creando dei meccanismi fisici di risonanza con la nostra immagine allo specchio che non riusciamo più a comprendere né a controllare.

 


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Dismorfismo e società

Il dismorfismo corporeo può essere considerato anche un sintomo di una società sofferente di perfezionismo e superficialità, abbagliata dal mito di un’eterna giovinezza?

Io non credo che la società di per sé sia sofferente. Se guardiamo al passato, in molte società si è sviluppato il culto della bellezza, spesso sublimato in varie forme d’arte. I canoni estetici, è vero, sono cambiati nel tempo e nello spazio e gli standard attuali sono diversi da quelli di culture passate, ma anche di società non occidentali. Eppure, il culto della bellezza e della giovinezza sono presenti in molte culture umane. Non credo che essi siano problematici di per sé, anzi probabilmente rappresentano un simbolo del valore attribuito a certi aspetti della salute, della vitalità, dell’abbondanza, che possono essere condivisibili.

Il problema sorge quando ci si dimentica che non soltanto il bello è buono, ma anche il buono è bello. Cioè non solo il bello è attraente e vitale, ma anche ciò che è vitale o autentico diventa bello. La bellezza non è soltanto l’adesione a un canone. Anzi forse la bellezza è trasgressione dei canoni stessi. Si può essere belli in molti modi. E ognuno ha il dovere morale di trovare il proprio.  Più che fuggire dagli standard imposti dalla società, dobbiamo ricordare che la società non è un monolite o un organismo univoco. Ha molteplici sfaccettature e influenze, e ciascuna può agire su di noi in modo diverso.

È innegabile che esista una parte della società che celebra la bellezza superficiale e il mito dell’eterna giovinezza. Tuttavia, questo aspetto può solo agire come acceleratore o detonatore di insicurezze e disagi preesistenti. Spesso legati a un senso di insoddisfazione in altri ambiti, come la famiglia, la scuola o il gruppo di appartenenza. In questo senso, il dismorfismo corporeo non è solo il riflesso di un ideale estetico irrealistico, ma il segnale di malesseri più profondi che richiedono attenzione.

Superare l’autocritica eccessiva

Com’è possibile spezzare il circolo vizioso di un’autocritica eccessiva o, addirittura, di un senso di disprezzo nel vedere la propria immagine?

I casi gravi di dismorfofobia vanno trattati nelle sedi appropriate. Se c’è un disturbo e una patologia vera e propria, ci si dovrebbe rivolgere ad esperti e seguire un percorso psicologico o psichiatrico. Per tutto ciò che riguarda l’autocritica eccessiva nelle situazioni di potenziale normalità, dove c’è il disagio del non piacersi e non una vera e propria patologia, ci possono essere diversi modi per spezzare il circolo vizioso e la ricerca filosofica può aiutare a trovarne alcuni.

Una possibile strategia può essere quella di cercare di capire, quando ci stiamo guardando allo specchio, se ci stiamo concentrando solo ed esclusivamente sulle parti che non ci piacciono. C’è qualcosa che invece ci piace di noi? Cerchiamo di esaltare quello che ci piace.  Cercando di capire come possiamo piacerci di più, andando a migliorare o rinforzare le parti migliori di noi.

La gentilezza verso sé stessi

Dott.ssa Antonella Tramacere

Come possiamo aumentare la gentilezza nei nostri confronti, anche allo specchio? C’è qualche esercizio utile che possiamo fare o qualche buona abitudine da coltivare?

Possiamo pensare a cosa succede quando ci innamoriamo di qualcuno. Spesso ci innamoriamo di una persona non semplicemente perché è bella. Ci sono tante persone belle. Ci innamoriamo proprio di quella persona lì, per qualcosa che va al di là della sua bellezza fisica esteriore. Quando ci innamoriamo, passiamo sopra i difetti di questa persona, forse non li vediamo affatto. Allora dovremmo cercare di capire che tipo di meccanismi sono implicati nel nostro amore per gli altri. E cercare di renderci conto che, se stiamo agendo una critica eccessiva o un disprezzo nei confronti di noi stessi, questo disprezzo o questa critica non dipendono da come siamo fatti esternamente.

Potremmo prestare attenzione alle nostre narrazioni interiori. E farlo attraverso la mindfulness, la meditazione, la psicoterapia, la coltivazione dei nostri interessi, della nostra persona, dei nostri rapporti interpersonali. Si può partire con l’abitudine di cominciare a sorridersi allo specchio, piuttosto che concentrarsi su quello che non ci piace. Possiamo, in conclusione, concentrarci sull’amore: capire e visualizzare proprio cosa è implicato nell’amore per gli altri, per cominciare a provarlo anche per noi stessi.

 


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