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L’educazione è prevenzione

La cultura come salute, inclusione e sviluppo

L’11 e 12 ottobre si sono tenute Le Giornate di Bertinoro per l’Economia civile, promosse da AICCON Research Center come un laboratorio di studio e confronto sull’evoluzione del Terzo settore e dell’Economia Civile in Italia. Incontriamo oggi Paolo Venturi, direttore di AICCON, per parlare di educazione e cultura come parti integranti della salute globale.

Intervista a Paolo Venturi

Dal rapporto ISTAT presentato nell’occasione delle Giornate di Bertinoro, emerge che lo scorso anno il 70,5% dei bambini e ragazzi tra i 3 e i 19 anni non è mai andato in biblioteca. Qual è l’impatto e il rischio della povertà educativa sulla salute globale della comunità?

Il rischio è molto elevato e ne stiamo già vedendo gli effetti. L’educazione è diversa dall’istruzione o dalla formazione. Etimologicamente “educare” deriva dal latino educěre, che significa “tirar fuori”. La biblioteca non è quindi il luogo dove ci si istruisce, ma dove in qualche modo si scopre sé o l’altro da sé. Ogni libro è in potenza un incontro che arricchisce la vita. Questa ricchezza sta diventando sempre più per un numero ridotto di persone. Spesso la “lotteria della vita” fa nascere i giovani all’interno di famiglie o contesti che non permettono loro di dare valore a questo tipo di esperienza.

La povertà educativa ha un impatto molto rilevante, che si vede nelle scelte delle persone, comportamenti, meccanismi di partecipazione e soprattutto nell’impoverimento della speranza e della costruzione del sé e della propria felicità, con ripercussioni sull’economia, innovazione, costruzione di capitale sociale e democrazia. C’è un grande lavoro da fare sul tema delle povertà educativa, che ha a che fare con la redistribuzione della ricchezza e la creazione di opportunità, perché la cultura è la più grande esperienza e palestra che possiamo fare per costruire la persona.

Dai nuovi dati ISTAT emerge anche che il 16,8% dei bambini e ragazzi tra i 6 e i 19 anni nel 2023 non è mai andato al cinema, a teatro, a visitare musei, mostre, siti archeologici, monumenti o concerti. Ci sono soluzioni possibili – politiche, urbanistiche, comunicative – che possono essere messe in atto per valorizzare l’offerta culturale, compresa quella gratuita di biblioteche e location storiche ed espositive?

Questi numeri sono indicatori di una desertificazione di ciò che è l’esperienza culturale e della dimensione relazionale giocata all’interno dei contesti culturali, non intesi come semplice intrattenimento, ma come processo che potenzia ed educa. Occorre cambiare sguardo rispetto a questi luoghi e alla cultura. Questo, nella storia, è il tratto che ha permesso alla persona di scoprire la realtà. Le biblioteche non sono degli spazi per un‘élite, dovrebbero piuttosto diventare degli hub di comunità: spazi da attraversare agilmente, dove si inseriscono più funzioni. È chiaro che l’uso che se ne faceva una volta non può essere quello di oggi. Una volta il libro era l’unica fonte di informazione, oggi il cellulare e la tecnologia ci mettono a disposizione un flusso di conoscenze che non siamo neanche in grado di discernere.

Il luogo delle biblioteche va rigenerato, non solo riqualificato. In Inghilterra molte biblioteche vengono riaperte per rigenerare le periferie, offrendo spazi che possano essere un’occasione di incontro e progettazione, ospitando anche altre funzioni. Nell’ambito inglese addirittura alcuni pub sono inclusi nel sistema di queste biblioteche, perché la cultura è una grande piattaforma per l’inclusione. La dimensione educativa è sostanzialmente un processo inclusivo e oggi per includere occorrono luoghi. Più che di risorse economiche, abbiamo bisogno di nuovo spazio, che gli stessi fruitori possano ridisegnare, rianimare e far diventare un meccanismo per la rigenerazione. Oggi periferie, alcuni centri storici, aree interne e molti ambiti di innovazione giovanile sono dei veri e propri spazi rigenerati, che erano abbandonati o dormienti e che riprendono vita con funzioni che prevedono quasi sempre la centralità della cultura. Questa è un po’ come il lievito nell’impasto: ne basta poco, però cambia un po’ la consistenza di tutto.

Se oggi dovessi giocarmi una proposta di legge sulla valorizzazione, la farei intorno agli spazi e ai luoghi, in particolare quelli a matrice culturale, con un grande protagonismo anche di definizione delle funzioni e attività in mano a quelli che li fruiscono. Lo spiazzamento crescente nei confronti dei giovani nasce proprio dal design delle proposte che sono rivolte loro. Bisogna superare la classica mappatura dei bisogni, dove alla fine arriva qualcuno che, da fuori, offre le risposte. Bisogna rendere i ragazzi coprotagonisti delle soluzioni, perché queste funzionino.

Le Giornate di Bertinoro puntano sull’urgenza di uno sviluppo integrale e di una revisione delle attuali regole del gioco socioeconomiche. Che ruolo ha la cultura in questa trasformazione? Qual è la funzione sociale dell’educazione? Possiamo parlare di educazione come prevenzione e parte di un sano stile di vita?

Assolutamente, l’educazione è un meccanismo che costruisce il sé, quindi anche le basi che stanno all’origine della scelta e delle decisioni. Decidere etimologicamente significa “tagliare”. Per tagliare e scegliere ciò che è bene, bisogna essere educati a farlo: non solo a conoscere le cose, ma al rapporto con le cose. L’educazione è fondamentale, è tutto. La dimensione educativa è ciò che permette alla persona di valorizzare ciò che uno è, non solo ciò che sa.

L’educazione ha bisogno di un metodo, una maieutica, una proposta, un ambiente, un contesto, di stimoli anche esperienziali, di maestri, adulti, amici e di qualcosa che sia altro da sé. L’educazione richiede una relazione. Quello sull’educazione diventa il più grosso investimento che possiamo fare in logica preventiva per la salute delle persone. L’economista Deaton ha scritto un libro che si chiama Morti per disperazione, dove descrive l’impatto delle numerose patologie che hanno a che fare con gli stili di vita, scelte e comportamenti, in una società che stimola sempre alla performance, alla produzione e dove i meccanismi legati al senso, al significato e all’esperienza sono totalmente sottratti alla vita. Morti per disperazione ci racconta che il vero fattore di mortalità non è soltanto la guerra o la povertà, ma è anche l’anoressia della speranza e del senso. Questa è correlata spesso a un basso investimento nell’educazione.

 



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Come possono le Istituzioni divenire spazi morali, invece che neutri, valorizzando l’unicità e l’irripetibilità di ogni singola persona? Qual è il ruolo del Terzo Settore?

In questi giorni è stato conferito il nuovo Premio Nobel ad Acemoglu, Johnson e Robinson, tre economisti americani che affermano che le teorie sulla ricchezza e sulla povertà possono essere lette e approfondite osservando la natura delle istituzioni. La differenza fra uno stato integralmente sviluppato e uno stato che non si sviluppa non sta, quindi, nella sua dotazione di risorse, ma nella natura e tipologia delle istituzioni, ossia delle regole del gioco. Acemoglu, Johnson e Robinson dicono che in una società non basta solo che si sviluppi un positivo attivismo, ma è necessario che questo si sedimenti, fiorisca e prenda tratti anche istituzionali. Questi permetteranno alle persone che verranno dopo di poter godere di quelle buone pratiche.

Le istituzioni sono quelle che influenzano di più il corso della storia. Quando Basaglia ha cambiato la psichiatria, non si è fermato a una buona pratica, ha inventato le cooperative di inserimento lavorativo, mettendo nella cooperativa direttamente i pazienti, insieme ai propri collaboratori. La medicina nasce con Ippocrate, però affinché quel giuramento sia a servizio di tutti servono gli ospedali. Le buone azioni, oggi più che mai, necessitano di diventare soluzioni istituzionalizzate o progetti organizzati. Ed è un richiamo particolare al Terzo Settore, al non profit e al sociale: l’urgenza oggi non è solo quella di intervenire su problemi e bisogni costruendo progetti, ma rendere questi progetti istituzioni, nuove infrastrutture sociali, organizzazioni, modelli di associazionismo e partecipazione, cioè nuovi corpi intermedi, capaci di arricchire non solo la pluralità dei soggetti, ma anche la qualità delle soluzioni.

Ci troviamo di fronte a una combinazione di sfide sociali, ambientali e di welfare. Come possiamo rispondere a questa policrisi in maniera integrata?

In biologia ci sono tre tipologie di relazione. La prima è il parassitismo: per salvarmi, resistere e continuare a sopravvivere, io in qualche modo mi approfitto di te. Un secondo principio biologico è il commensalismo: quella simbiosi in cui siamo in relazione e io ti uso, però senza arrecarti danno. Mentre nel parassitismo, in qualche modo, mi nutro di te, nel caso del commensalismo ti uso strumentalmente. Poi c’è un terzo modello di simbiosi, che si chiama mutualismo: quel meccanismo in cui la possibilità che io esista dipende dalla relazione che ho con te. Oggi la complessità richiede il mutualismo, l’interdipendenza, il mutuo riconoscimento, la cooperazione, il legame.

La vulnerabilità non è più un tratto di pochi: colpisce tutti. Oggi la complessità ha bisogno di uscire dalla tentazione di isolarsi e frammentarsi. Di fronte all’incertezza ci sono due risposte: una è isolarsi e avere paura (e quando si ha paura non si coopera), l’altra è assumere la complessità come l’occasione per riscoprire l’interdipendenza, il legame sociale, una dimensione comunitaria. Diversamente, la complessità che viene affrontata in una logica individualistica o non socializzata genera disuguaglianze crescenti, fino ad impattare anche su quelli che si sentono in cima alla piramide, prima o poi. Il tema della complessità è una grande opportunità per risignificare un po’ tutto: può essere vista come qualcosa che potenzia l’incertezza, oppure come una grande domanda di legame, con la consapevolezza che da soli non si va da nessuna parte.

L’impegno di Fondazione Patrizio Paoletti

Fondazione Patrizio Paoletti investe in progetti neuro-psicopedagogici didattici per tutto l’arco della vita, dall’infanzia all’età anziana, promuovendo processi di educazione e auto-educazione, valorizzando l’unicità e responsabilità personale nel contribuire a traghettare la società verso un futuro sostenibile e prospero. Dalla didattica arricchita di Assisi International School al progetto Prefigurare il Futuro nelle scuole italiane, dall’aggiornamento dei docenti con metodologie innovative a iniziative di welfare culturale inclusivo come AIDA, l’ente contribuisce alla diffusione della cultura come inclusione e salute globale.

 


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Sitografia
  • www.legiornatedibertinoro.it 
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