
Un legame patologico: la prigione invisibile di Miriam
Il pericoloso incontro fra narcisismo e dipendenza affettiva
L’amore, si dice, è un sentimento che libera, unisce, eleva. Ma cosa succede quando si trasforma in un legame patologico che imprigiona l’individuo in un vortice di sottomissione e annullamento? Il più delle volte, dietro le sbarre di questa prigione senza mura, si nasconde una figura con un volto ben preciso: il narcisista patologico.
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ToggleConoscere il narcisismo patologico
Il narcisismo, quando degenera in patologia, non è semplice vanità. È un disturbo della personalità complesso, caratterizzato da un senso grandioso di sé, un bisogno profondo di ammirazione e una totale mancanza di empatia. Chi ne è affetto vede gli altri come estensioni di sé stessi, strumenti per nutrire il proprio ego smisurato. E quando il narcisista incontra una persona incline alla dipendenza emotiva, il terreno è fertile per una relazione tossica, un lento e metodico smantellamento dell’identità dell’altro attraverso la violenza psicologica.
Per anni, decenni, queste relazioni silenziose si consumano dietro porte chiuse, fatte di manipolazione sottile, gaslighting, svalutazione costante, isolamento progressivo. Non ci sono lividi visibili, ma le ferite sono profonde.
Per comprendere veramente l’entità di questo fenomeno, per dare voce a chi ha vissuto nell’ombra della manipolazione, è fondamentale ascoltare le storie di chi è riuscito a spezzare le catene. Miriam, nome di fantasia, è una di queste voci, una testimonianza preziosa di dieci anni trascorsi in una prigione invisibile.
Come vi siete conosciuti? Com’era all’inizio della vostra relazione?
Ci siamo incontrati sul posto di lavoro, un ambiente dove lui, in quanto manager, aveva una certa autorità e un grande carisma. Fin da subito, la sua presenza è stata travolgente. Lui non si limitava a essere un collega o un superiore. Era incredibilmente premuroso, mi trattava con una gentilezza che non avevo mai sperimentato prima. Mi dava supporto costante nel lavoro, con consigli e aiuti che mi facevano sentire valorizzata e protetta.
Le sue attenzioni, dopo pochi giorni, sono andate ben oltre l’ambito professionale. Erano continui inviti a pranzo, cene eleganti, serate al cinema o aperitivi in luoghi alla moda. Ogni momento libero sembrava dedicato a noi, a conoscermi, a farmi sentire al centro del suo mondo. In quel periodo mi sentivo davvero speciale, unica. La cosa che più mi colpiva era la sua capacità di esserci sempre. Durante i miei momenti di sconforto, quando il lavoro o la vita mi mettevano alla prova, lui era lì, pronto ad ascoltare, a consolare, a trovare la parola giusta per rassicurarmi. Era la spalla forte che non avevo mai avuto.
Inizialmente, sembrava piacere a tutti. Le mie amiche lo trovavano affascinante, un uomo di successo, attento, premuroso. “Finalmente hai trovato qualcuno che ti merita!” mi dicevano. Ma c’era un’eccezione: la mia migliore amica. Lei, con la sua sensibilità acuta e la sua capacità di vedere oltre le apparenze, in lui notava qualcosa di strano. Non riusciva a spiegarmelo, ma continuava a ripetere che era “troppo”. Troppo perfetto, troppo presente, troppo controllante in modi sottili che io non riuscivo a cogliere. Vedeva un’intensità che le sembrava innaturale, una sorta di eccesso in ogni gesto, in ogni attenzione.
Purtroppo, accecata da quello che credevo fosse amore e dalla sua capacità di manipolare la situazione, ho finito per allontanarmi dalla mia migliore amica. I due non andavano d’accordo o, meglio, lui non tollerava le sue osservazioni, le sue domande scomode. E io, completamente innamorata e convinta che fosse solo gelosia o incomprensione da parte sua, ho fatto una scelta di cui, ancora adesso, mi pento profondamente. L’ho allontanata da noi. Quella decisione mi ha isolato, rendendomi ancora più vulnerabile al suo controllo. È stata la prima, dolorosa, tappa di un percorso che mi ha imprigionato per dieci lunghi anni.
Quando hai iniziato a percepire che il legame era patologico? Quali sono stati i primi campanelli d’allarme?
Quando me ne sono resa conto era ormai troppo tardi. Lui aveva già abilmente creato un vuoto intorno a me. Ogni legame affettivo, ogni passione che definiva la mia identità, era stato reciso con una maestria quasi impercettibile. Non avevo più la possibilità di vedere mia sorella, mio fratello, mia nipote, i miei genitori – persone alle quali ero legatissima e che erano un pilastro nella mia vita.
Ma l’isolamento non si è fermato lì. Era successo che, a un certo punto, avevamo deciso – o meglio, aveva deciso lui, con me che non ne ero affatto convinta – di avere un figlio. L’idea di una famiglia mi attraeva, ma la vera spinta veniva da lui. Quando, dopo vari tentativi, non riuscivamo a concepire, la ginecologa mi aveva dato un responso chiaro: ero troppo stressata. Lui, a quel punto, invece di supportarmi o cercare soluzioni insieme, ha pensato bene di agire drasticamente. Con un’insistenza sottile ma ferma, mi ha spinta a licenziarmi, convincendomi che il lavoro fosse la fonte di tutto il mio stress e l’ostacolo alla maternità. Così, ho perso anche la mia autonomia economica e la mia rete sociale lavorativa.
Mi aveva stravolto la vita in una maniera così subdola e progressiva che non avevo avuto nemmeno il tempo di rendermene conto, figuriamoci di ribellarmi. È stato abilissimo nel disfare la mia esistenza pezzo dopo pezzo, camuffando ogni atto di controllo come un gesto d’amore o di premura. Quando dico che ancora oggi non capisco come sia riuscito a farlo, non scherzo. Mi mancano alcuni passaggi logici, alcuni “perché” fondamentali di quel periodo.
Oggi, a mente lucida e con la razionalità che ho riconquistato, posso affermare con sicurezza che nessuno avrebbe mai potuto allontanarmi dalle mie amiche e dalla mia famiglia, dallo sport che amavo, dalle lunghe passeggiate spensierate con il mio cane, da quella leggerezza e quella spensieratezza che avevo nel gestire la vita prima di incontrarlo. Eppure, lui ci è riuscito. Mi ha privato della mia stessa essenza, un pezzo alla volta, fino a che non mi sono più riconosciuta. Una mattina mi sono svegliata, stanca come sempre, e sono andata in bagno. Quella mattina, non so perché, ho deciso di non rifuggire lo specchio. Mi sono guardata e mi sono spaventata. Ero gialla, gialla davvero. Gli occhi neri, non riuscivo più a vedere la mia anima. Ero intrappolata in una realtà creata da un altro.
Puoi descrivere la natura della violenza psicologica che hai subito?
Di tutto. Potrei iniziare dalla svalutazione per arrivare alla denigrazione, alle minacce velate, ai silenzi punitivi, ai tradimenti e al controllo economico.
La violenza psicologica che ho subito era un’arma silenziosa, devastante. Non c’erano pugni, ma ogni parola, ogni sguardo, ogni silenzio era un colpo diretto alla mia autostima, alla mia sanità mentale. Era una costante svalutazione mascherata da “critica costruttiva” o “preoccupazione per il mio bene”. Ricordo che, se preparavo una cena che mi sembrava buona, lui assaggiava con un’espressione neutra e poi mi diceva che la sua ex la faceva con più sapore. Non era un’offesa diretta, ma un modo per farmi sentire inadeguata, sempre un passo indietro rispetto a un ideale irraggiungibile.
La denigrazione, invece, era il suo pane quotidiano, spesso fatta in pubblico, con un sorriso e una battuta. Le persone intorno ridevano, pensando fosse affettuoso, ma ogni risata era una pugnalata che mi rimpiccioliva, facendomi sentire stupida, goffa, incapace. Mi riduceva a una macchietta, un personaggio comico della sua vita, togliendomi ogni dignità.
I silenzi punitivi erano un tormento. Se osavo contraddirlo o esprimere un’opinione diversa, anche su una sciocchezza, lui non urlava. Si chiudeva. Non mi parlava per ore, a volte per giorni. Era come se scomparisse, pur essendo fisicamente presente. Mi passava accanto senza guardarmi, rispondeva a monosillabi o ignorava le mie domande. L’aria diventava densa, carica di una tensione insostenibile. Ero costretta a implorare, a chiedere cosa avessi fatto, a umiliarmi per far tornare la pace, pur non capendo mai davvero la mia colpa. Questo mi logorava, mi faceva sentire costantemente sbagliata e disperata di ripristinare il suo affetto.
Lui non mi diceva mai “Ti lascio”. Mi guardava fisso negli occhi e mi sussurrava a denti stretti: “Se continui così, non so quanto ancora potrò sopportare questa situazione, non pensavo che una persona che amo arrivasse a deludermi a tal punto”. Erano frasi che evocavano la possibilità di un abbandono imminente, tenendomi in uno stato di ansia costante, sempre in bilico tra la paura di perderlo e l’angoscia di restare.
Il controllo economico era un’altra sua arma potentissima. Dopo avermi convinta a lasciare il lavoro, la mia indipendenza finanziaria è svanita. Ero costretta a chiedergli i soldi per ogni spesa, anche la più piccola. Lui controllava ogni scontrino, ogni richiesta, facendomi sentire un peso, una parassita e questo mi rendeva totalmente dipendente da lui.
Infine, percepivo i tradimenti emotivi. Il suo interesse per altre persone, il suo flirtare sottile, i suoi paragoni con ex fidanzate o donne idealizzate. Non erano tradimenti fisici evidenti, ma sentivo la sua attenzione e la sua energia spostarsi altrove, lasciandomi con un senso di inadeguatezza e di non essere mai abbastanza.
Quando hai deciso di allontanarti da quell’uomo?
C’è stato come un clic, qualcosa è scattato nel mio cervello. La mia psicologa mi ha detto che è stato l’istinto di sopravvivenza a prendere il sopravvento. Da molto tempo ormai, la mia vita era diventata un’agonia soffocante. Respiravo a fatica, come se un macigno mi schiacciasse il petto ad ogni respiro. I forti attacchi d’ansia irrompevano senza preavviso disorientandomi. Non mi sentivo più al sicuro nemmeno nella mia stessa casa.
C’erano momenti, soprattutto la notte, in cui l’orrore si faceva più concreto e tangibile. Mi svegliavo di soprassalto, con il cuore che mi batteva all’impazzata, e lo trovavo lì, di fianco a me, che mi fissava nel buio. I suoi occhi, nell’oscurità, mi sembravano vuoti, carichi di un’intenzione che mi gelava il sangue nelle vene. In quei frangenti pensavo volesse uccidermi. L’idea che la persona che dormiva accanto a me potesse essere la mia fine era diventata una realtà insopportabile.
Non potevo più restare. Non c’è stato un addio, non c’è stato un confronto. Sono andata via come una ladra, nel silenzio più assoluto, raccogliendo il minimo indispensabile. Nonostante la paura, nonostante la fuga furtiva, per la prima volta dopo tanti, avevo un obiettivo chiaro, direi vitale: riconquistare la mia libertà. Non era solo un desiderio, era una necessità impellente, l’unica via per salvarmi.
Come stai affrontando il percorso di guarigione? Quali sono le principali sfide?
Affrontare il percorso di guarigione dopo anni di violenza psicologica è davvero faticoso. Non è un processo lineare. Ci sono piccole vittorie e ricadute inaspettate. La prima grande sfida, ancora oggi, è la ricostruzione dell’autostima e dell’identità. Dopo anni in cui ogni mia azione, pensiero o emozione è stata svalutata e distorta, ho dovuto imparare di nuovo a fidarmi del mio giudizio e a riconoscere il mio valore. È un lavoro quotidiano di riaffermazione.
Un’altra sfida enorme è la gestione del trauma e dell’ansia residua. Anche se fisicamente sono al sicuro, la mia mente ha interiorizzato un senso di allerta costante. Momenti di tranquillità possono essere interrotti da attacchi d’ansia innescati da un tono di voce simile, una situazione che evoca controllo, persino un silenzio prolungato. Ho dovuto imparare tecniche di rilassamento, a riconoscere questi “trigger” e a non farmi sopraffare, ma è una lotta continua per calmare un sistema nervoso che per troppo tempo è stato in stato di emergenza.
Dopo aver sperimentato un tradimento così profondo da parte di una persona che amavo e che avrebbe dovuto amarmi e proteggermi e che, invece, ha sfruttato la mia vulnerabilità, ricostruire la fiducia negli altri è molto complicato. Ogni nuova relazione, sia essa amicale, familiare o sentimentale, la affronto con cautela. Ho il timore costante di non riuscire a riconoscere i segnali d’allarme precoci, di cadere di nuovo nella trappola di una manipolazione e questo rende le relazioni faticose sia per me, sia per chi cerca di avvicinarsi anche con le più buone intenzioni.
Infine, la sfida più subdola è il perdono verso me stessa. Per anni mi sono sentita stupida, debole, colpevole per aver permesso a qualcuno di farmi del male. Liberarmi da questo senso di colpa, comprendere che non ero io la responsabile della sua cattiveria, è un lavoro psicologico profondo e costante. Accettare che la vittima non ha colpe è un passo fondamentale, ma il senso di vergogna ha un peso specifico elevato.
Che messaggio daresti a chi si trova in una situazione simile?
Dare un messaggio a chi si trova ancora intrappolato in un legame patologico è forse la parte più difficile e importante del mio percorso. Ancora oggi non so con precisione quale sia il messaggio perfetto, quello che possa davvero arrivare e fare la differenza in un istante.
Quello che posso dire, basato sulla mia esperienza, è che non sei sola e non sei sbagliata. La confusione, il senso di colpa, la sensazione di impazzire non sono difetti tuoi. Sono le conseguenze di una violenza psicologica sottile e perversa, creata ad arte da chi si nutre del tuo annullamento. Quella voce interiore che ti dice che c’è qualcosa che non va, quel senso di disagio che provi, non ignorarlo. È il tuo istinto che cerca disperatamente di avvisarti. Quella sensazione è la tua bussola per la sopravvivenza.
Cerca aiuto, anche se ti sembra impossibile. Parla con qualcuno di cui ti fidi ciecamente e se non puoi parlare apertamente, cerca risorse online, ascolta podcast di chi ha vissuto esperienze simili, leggi libri sulla dipendenza emotiva o sul narcisismo patologico. Anche una piccola fessura nella tua prigione di isolamento può far entrare la luce. Non vergognarti, perché la vittima non ha mai colpa. La forza non sta nel sopportare all’infinito, ma nel riconoscere la propria sofferenza e cercare la via d’uscita.
Ogni passo lontano da quella relazione tossica è un passo verso la persona che eri e che puoi tornare a essere, più forte e consapevole. Non perdere la speranza, perché la tua vita, la tua dignità e la tua felicità valgono ogni sforzo.
Non temere mai di chiedere aiuto!
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