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Violenza: quando mamma e figli sono le vittime

Nadia Somma Caiati racconta 30 anni di storie di madri e violenza

La violenza è violenza, senza distinzioni. Che sia fisica, psicologica o entrambe, lascia segni profondi su chi la subisce. Ma quando nella dinamica entrano in gioco i figli, lo scenario si complica ulteriormente. L’impatto emotivo e psicologico su di loro può essere devastante: vivere in un ambiente di paura e sopraffazione non solo segna il presente, ma può influenzare il loro futuro, il modo in cui costruiranno relazioni e affronteranno la vita.

I dati della violenza in Italia

La violenza sulle donne ha i tratti di una vera pandemia: secondo i dati Istat, in Italia il 31,5% delle donne, quasi una su tre, ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza, fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici, mentre il 62,7% degli stupri sono commessi dai partner.

La violenza impatta gravemente sulla salute della donna e anche delle nuove generazioni. La genomica sociale testimonia che i meccanismi di epigenetica tramandano il dolore e il trauma al futuro, traducendo rischio sociale in rischio biologico, con profondi effetti sulla fisiologia e sul sistema immunitario e mettendo in pericolo la salute globale.

Proteggere i minori

Nadia CaiatiLa violenza familiare, dunque, non è mai un dramma individuale: le sue conseguenze si propagano, facendo della protezione dei minori una priorità che non può essere ignorata. Dietro porte chiuse, lontano dagli sguardi del mondo, ci sono donne che combattono ogni giorno una battaglia silenziosa. Mamme che, oltre a proteggere i loro figli, devono trovare la forza di rialzarsi dopo la violenza, dopo il dolore, dopo la paura. Le loro storie, spesso ignorate, raccontano di coraggio, di rinascita e della difficile conquista di una vita libera.

Nadia Somma Caiati, attivista nei centri antiviolenza dal 1991 e formatrice (attualmente lavora al centro antiviolenza “Demetra donne in aiuto”), conosce bene il dramma della violenza contro le donne. Da oltre 30 anni, si dedica con passione e competenza a proteggere e sostenere chi ha subito abusi. È a lei che ci siamo rivolti per raccontare le storie di donne e madri che hanno trovato il coraggio di affrontare il dolore. Somma, con discrezione e sensibilità, è diventata la confidente di umiliazioni e paure, offrendo ascolto e speranza a chi cerca una via d’uscita. 

La presenza dei figli rende ancora più difficile per le vittime uscire da situazioni di abuso?

I percorsi delle donne con figli e figlie sono sicuramente più complessi e difficili delle donne che non ne hanno. Da una parte, le madri, molto spesso, hanno perso il lavoro quando è cominciata la gravidanza, o hanno lasciato il lavoro per occuparsi dei figli, o ancora, sono state messe nella condizione dal partner di lasciare il lavoro in seguito alla scarsa collaborazione nella cura dei figli. 

La mancanza di servizi per l’infanzia, i turni di lavoro in fabbrica, la resistenza dei datori di lavoro a rilasciare permessi per la cura familiare e persino l’allattamento, il precariato, insomma una costellazione di cause negative, mettono in condizione le madri di licenziarsi o di essere licenziate. Inoltre, gli autori di violenza attuano una strategia di isolamento della partner dalle relazioni amicali e familiari e di depauperamento delle risorse economiche. Possono farlo obbligando la compagna ad indebitarsi con prestiti bancari (se queste hanno un lavoro) o facendo firmare fideiussioni (se le compagne sono proprietarie di case) e lo fanno con minacce e violenze. Ma non è solo questo il problema. 

Esiste la vittimizzazione istituzionale nei processi separativi, durante le cause per l’affidamento dei figli. Nei tribunali civili solo dopo la riforma Cartabia i giudici sono stati sollecitati a prendere in considerazione la violenza familiare, prima non tenevano minimamente conto della violenza che veniva confusa con il conflitto. Di conseguenza al termine dei procedimenti civili, i giudici davano l’affido condiviso, mettendo nella condizione le donne vittime di violenza di essere esposte ancora a controllo, violenza, ingiurie del partner insieme ai figli, costretti a incontrare il padre violento. Dopo la riforma Cartabia le cose sono leggermente migliorate.

Poi c’è la vittimizzazione con l’accusa di essere madri ostative, ovvero che ostacolano il rapporto con padri che hanno commesso violenza. La violenza assistita non viene considerata per esempio. A questo proposito c’è da rilevare che in parlamento è in discussione il DDL 832 in tema di diritto di famiglia che penalizza le donne e mette in pericolo le donne vittime di violenza.

Quali sono le storie che più ti hanno colpita nel corso degli anni?

Sono molte le donne che porto nei miei ricordi, donne italiane e straniere, nate in Paesi distanti migliaia di chilometri che hanno condiviso le stesse discriminazioni e le stesse violenze. Ricordo una donna che scappò con i due figli, nel cuore della notte, intuendo che la situazione col marito stava precipitando. Era arrivata in Italia con il ricongiungimento familiare, era giovanissima, non parlava italiano, rimase subito incinta. Nonostante i divieti del marito di uscire, andò a scuola di italiano, riuscì a trovare lavoro e a mantenerlo, trovò casa e attese che i figli crescessero. Fece domanda e ottenne l’assegnazione di una casa popolare. Attese che arrivasse il momento per chiudere la relazione, e se ne andò. Una vera e propria storia di resistenza

Naturalmente non voglio affatto dire che le donne devono affrontare una via crucis, perché la violenza può essere spezzata subito, alle prime avvisaglie, se si riconoscono i segnali e si accede ad un percorso presso un centro antiviolenza. Ho raccontato questa storia, simile a tante, per far capire che le donne che vivono situazioni di violenza non sono necessariamente donne fragili, donne dipendenti, donne poco coraggiose come spesso, purtroppo, vengono descritte dalla stampa o da certi psicologi ben poco formati sulla violenza che rilasciano opinioni banali o fuorvianti sui media. 

Ricordo una giovanissima donna che si presentò alla porta del centro antiviolenza con 4 figli. Era stata ceduta dalla famiglia a 13 anni, e parlo dell’Italia degli anni ’90, mica dell’Italia del dopoguerra. Ceduta ad un ragazzo di 21 anni in cambio di denaro. Per 10 anni, subì violenze di ogni tipo. Un giorno, dopo una violenza molto grave, scappò con i figli, con quello che aveva indosso: quando le aprii la porta era in ciabatte. È riuscita a ricostruire tutta la sua vita. Dopo due anni, lavorava, era autonoma e ha cresciuto i suoi figli in serenità

Ricordo donne anziane vittime di violenza da parte di figli con disturbi psichiatrici o di mariti che sono stati violenti per tutta la vita. Uno dei tanti aspetti ignorati nella narrazione della violenza sui media. Si tende infatti ad erotizzare la violenza, a raccontarla come una cosa che capita quando una donna è giovane, sessualmente attraente, disinibita, rea di aver innescato la furia di un uomo trasgredendo alle aspettative sui loro ruoli di genere.

Invece moltissime donne anziane sono costrette a svolgere il lavoro di cura di figli o mariti con disturbi o semplicemente prevaricatori. Una di loro quando è entrata in casa rifugio aveva  70 anni e finché non è riuscita a rientrare nella sua abitazione, dopo aver ottenuto l’ordine di allontanamento del marito, ha abbellito la casa rifugio, ha cucito tende, ha rifoderato i divani, ha ricamato gli asciugamani. Stava sistemando e abbellendo la casa rifugio come stava facendo con la sua vita. 

Ricordo una avvocata vittima di violenza, una medica e un’imprenditrice, donne con possibilità economiche ma in situazioni di rischio. Ne sono uscite. Racconto sempre che quando le incontro, per caso, per strada, in qualche negozio, al cinema, non le riconosco per quanto sono cambiate. Sono loro a riconoscermi. E basta uno sguardo e un sorriso: “Ciao sono… sto bene”. 

Quali sono gli ostacoli più grandi che queste donne devono affrontare nel cercare aiuto?

Le donne vittime di violenza, dopo anni di maltrattamento, soffrono di sindrome post traumatica da stress, ovvero hanno pensieri intrusivi, depressione, ansia, flash back, disturbi del sonno, irritabilità e abbattimento della fiducia negli altri e in se stesse. A causa della manipolazione, spesso si sentono colpevoli per la violenza che subiscono. Spesso non sono pienamente consapevoli di stare in relazione con un autore di violenza. La richiesta di aiuto scatta spesso quando i figli manifestano sofferenza per la violenza a cui assistono o diventano bersaglio di violenza diretta. Allora possono avere una improvvisa consapevolezza della situazione e di dover allontanarsi da quella situazione per tutelare i figli. 

In altri casi, la disperazione legata a non avere risorse economiche e reti familiari o amicali le scoraggia dal chiedere aiuto. Oppure possono avere una concreta paura di essere uccise se svelano le violenze e data la statistica dei femminicidi, la paura di essere uccise è concreta perché è proprio quando una donna svela la violenza e chiude la relazione che si alza il livello di rischio. Avviene ancora che le donne possono incontrare vittimizzazione istituzionale quando si rivolgono alle forze dell’ordine e siano scoraggiate dal fare denuncia.

Un altro aspetto è legato alla sottovalutazione del rischio da parte delle stesse forze dell’ordine o magistratura. Le donne non sono sempre consapevoli del pericolo di essere uccise perché gli autori di violenza sono manipolatori, e alternano violenza a momenti di relativa tranquillità e questo può far abbassare la soglia della percezione del pericolo. Infine parliamone: non è facile pensare che l’uomo con cui hai dormito, pranzato, avuto figli, vissuto sotto lo stesso tetto, possa arrivare ad ucciderti.

Come influisce la violenza su queste madri e sui loro figli? Quali segni lascia nel tempo?

La trasmissione intergenerazionale della violenza è un problema. Un trauma non elaborato nell’infanzia espone quel bambino o quella bambina, una volta diventati adulti, al rischio di subire violenze o di commetterle, di assumere droghe, di abusare di alcol, di avere comportamenti devianti. In ogni famiglia dove si agisce violenza, i figli e le figlie sono esposti al trauma anche se assistono alle violenza senza esserne colpiti direttamente. Le conseguenze sui più piccoli sono ansia, paura, scarsa concentrazione, insicurezza, rabbia, aggressività e altre  manifestazioni fisiche di regressione. È importante che le scuole e i servizi sociali sappiano intercettare queste situazioni per intervenire a tutela dei minori e supportare la madre insieme ad essi. Non si deve dimenticare che anche le madri sono ostaggio della violenza. 

Non è possibile non vedere, la violenza intra familiare è molto visibile ma si deve guardare con le lenti adatte. Recentemente abbiamo assistito a casi di giovani uomini, e due anni fa circa, di una giovane donna, che hanno ucciso il padre per difendere la madre. Sono casi tragici su cui pesa una responsabilità collettiva. Una sconfitta per tutti. 

Ci sono storie di donne che hanno trovato la forza di ricostruire la loro vita? Come sono riuscite a farlo?

Quasi tutte le donne che entrano in percorso nel centro antiviolenza ne vengono fuori. Alcune ci mettono più tempo, altre meno. Dipende dalle risorse interiori e dalle risorse esterne, come condizione economico sociale, supporto di familiari ecc. Si sono rivolte al centro antiviolenza e hanno cominciato con dei colloqui di sostegno, consulenze legali, accompagnamento nella denuncia, nei tribunali. Molte operatrici sono chiamate a testimoniare come persone informate sui fatti e danno forza alle donne, anche partecipando attivamente allo svelamento della violenza.

I Centri antiviolenza mettono a disposizione delle donne anche percorsi di empowerment e progetti di inserimento e reinserimento lavorativo. Affiancano le donne nella ricerca della casa, le aiutano a trovare soluzioni per la cura dei figli quando devono andare a lavorare. Uscire dalla violenza si può. I centri antiviolenza lo dicono da anni, e nel lontano 1996 questo fu anche il titolo del primo convegno nazionale contro la violenza alle donne che si tenne a Marina di Ravenna. Non è una speranza, è un progetto politico.

​​Consulta la mappatura 1522 dei centri antiviolenza in Italia

Quanto è importante avere qualcuno che ascolti e aiuti queste donne? Cosa fa la differenza per chi riesce a uscire dalla violenza?

Nessuna si salva da sola. Non devono essere fatti atti di eroismo. Cosa fa la differenza? Il primo passo è trovare ascolto senza giudizio, senza colpevolizzazioni, senza che qualcuno cerchi di sostituirsi alle donne. E’ importante chiedere aiuto ai centri antiviolenza, svelare ciò che accade in sicurezza. Nei centri antiviolenza si garantisce la segretezza e non si chiede di denunciare se non si è maturata la scelta di farlo. È necessario smettere di ripetere alle donne “denunciate” senza informarle che è bene farlo quando sono già dentro un percorso di sostegno presso un centro antiviolenza. O se lo hanno fatto di chiedere aiuto subito dopo ad un centro antiviolenza.

Per questo è importante il lavoro di rete per tutti i soggetti istituzionali e non istituzionali che a vario titolo entrano in contatto con donne che stanno subendo violenze. La denuncia da sola non basta. È necessaria ma non è sufficiente. La denuncia è solo una parte del percorso di uscita dalla violenza. Invece dalle istituzioni e dai media viene presentata come risolutiva. Poi sono le donne a farne le spese.

Cosa si potrebbe fare, a livello istituzionale e culturale, per migliorare la protezione e il supporto alle vittime?

È importante garantire che i Centri antiviolenza siano luoghi qualificati per dare le risposte adeguate alle donne, invece si sta andando in tutt’altra direzione. La modifica dell’articolo 1 dell’Intesa Stato Regioni che stabilisce i requisiti dei centri antiviolenza, per supplire alla carenza di questi ultimi in alcune regioni, renderà più generici i requisiti permettendo a qualunque associazione di improvvisarsi Centro antiviolenza. Questo è molto pericoloso per le donne che devono trovare luoghi con esperienza, una metodologia che rispetti la loro autodeterminazione e che sappia aiutare le donne a interfacciarsi con i servizi sociali, le forze dell’ordine, i tribunali, superando il rischio di vittimizzazione istituzionale.

Le nove condanne della Cedu (Corte Europea dei diritti umani) in casi di inerzia delle istituzioni o addirittura di aperta ostilità, ci confermano che abbiamo un problema. La violenza contro le donne, si sconfigge non solo con le leggi penali ma anche lavorando per il cambiamento culturale, nelle scuole, con le giovani generazioni, sollecitandoli a sradicare stereotipi, ma anche facendo politiche di genere per abbattere le disparità tra uomini e donne che sono il primo terreno su cui attecchisce la violenza.

  • Non temere mai di chiedere aiuto!

    Tutti i contenuti di divulgazione scientifica di Fondazione Patrizio Paoletti sono elaborati dalla nostra équipe interdisciplinare e non sostituiscono in alcun modo un intervento medico specialistico.

    Se sei vittima o testimone di episodi di violenza e bullismo, contatta questi numeri, per chiedere informazioni e conoscere le realtà in grado di fornirti supporto:

    • 114 Numero Emergenza Infanzia
    • 1522 Numero Anti Violenza e Stalking


  • GLI ADOLESCENTI VANNO AIUTATI.
    PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI.

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