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prevenzione suicidio

La storia di Kate e la necessità di arrivare prima che sia troppo tardi

Il racconto di un’amicizia interrotta, il coraggio di ricordare: “Kate c’era, si sentiva. Ora che non c’è, si sente ancora di più”

Sento quel vuoto che non è solo dolore, ma anche testimonianza di quanto, in vita, mi abbia lasciato. Perché, quando qualcuno ti cambia, ti accompagna, ti libera, non muore mai davvero”. Il suicidio è una realtà dolorosa che spesso fatichiamo a decifrare. Parlarne non è mai semplice e diventa ancora più complesso, innaturale, quando a compiere questo gesto estremo sono i giovani. L’idea che una vita appena sbocciata possa volontariamente scegliere di spegnersi interroga e lascia impotenti di fronte a un scelta apparentemente incomprensibile.

La testimonianza, che supera il silenzio

Il 10 settembre, la data dedicata alla Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio, è un momento di riflessione cruciale. I dati dipingono un quadro sconcertante: uno studio su Lancet denuncia la perdita di più di 740mila persone all’anno per suicidio al mondo. E il suicidio è la terza causa di morte per i giovani tra i 15 e i 29 anni. Questo fenomeno si accompagna a una crescita preoccupante dell’autolesionismo e a un’impennata delle richieste di aiuto.

Perché un giovane, con tutta la vita davanti, arriva a tanto? Questa è la domanda che ci tormenta, che ci spinge a cercare risposte in un labirinto di emozioni, silenzi e tabù. Le risposte, quelle vere, forse non le avremo mai. Ma possiamo provare a riflettere ascoltando chi, in prima persona, ha vissuto il dolore della perdita. Enea ci guiderà in un viaggio che ha segnato la sua vita. Un viaggio condiviso con la sua amica Kate. Un legame profondo, interrotto troppo presto. Un cammino che, senza preavviso, è arrivato al capolinea. Utilizziamo nomi di fantasia per proteggere entrambe le famiglie. Vi portiamo questa testimonianza perché è proprio dalle storie spezzate che può nascere qualcosa che aiuta a non rimanere in silenzio.

Enea, cos’è per te l’amicizia?

Ci ho pensato tante volte da quando Kate non c’è più e una risposta ce l’ho. L’amicizia è trasformazione. Vedi, un conoscente è una presenza che passa, che può anche lasciare un ricordo, ma non necessariamente un segno. Un amico vero, invece, ti cambia nel profondo. Ti fa crescere, è una presenza costante anche quando fisicamente non c’è. È qualcuno che ti fa sentire che non sei mai davvero solo, nemmeno nei momenti più bui. Ecco, per me Kate era questo.

Kate era una presenza forte, viva, carismatica. Una fonte inesauribile di energia e libertà. Con lei riuscivo a tirare fuori una parte di me che spesso, per imbarazzo o paura del giudizio, tendevo a nascondere. Quella parte più folle, più spensierata, più vera. Con lei mi sentivo più leggero, con lei potevo essere me stesso.

Tra noi c’era una complicità fatta anche di provocazioni, ci stuzzicavamo a vicenda come due bambini cresciuti troppo in fretta. Non ricordo discorsi profondissimi, di quelli che si fanno magari nelle notti insonni, ma ricordo che bastava uno sguardo per capirci. C’era una sintonia sottile, che non aveva bisogno di essere spiegata.

Lei mi ha reso la persona che sono oggi. Mi ha insegnato a non aver paura di essere me stesso. A lasciarmi andare. A ridere. A non trattenermi sempre. A vivere davvero. Kate si sentiva, ovunque andasse. E adesso che non c’è, si sente ancora di più. Sento quel vuoto che non è solo dolore, ma anche testimonianza di quanto, in vita, abbia lasciato. Perché, quando qualcuno ti cambia, ti accompagna, ti libera, non muore mai davvero.

Che cosa pensi sia successo a Kate?

È difficile rispondere con certezza, anche adesso. Non penso che la sua fosse vera e propria depressione. Non nel senso che siamo abituati a immaginare. Kate aveva dentro un’inquietudine costante, un’ansia enorme. Un’ansia legata al futuro, a tutto quello che sarebbe dovuto venire dopo la scuola, dopo i 18 anni, dopo quell’età sospesa in cui ci si sente sempre in bilico tra il dover scegliere e il non voler crescere.

So che aveva iniziato un percorso, era stata ricoverata e aveva iniziato delle cure. Quando la rividi, dopo quel periodo, sembrava un’altra. Più spenta, più distante. Forse per tutto quello che stava vivendo dentro e che nessuno, me compreso, riusciva a cogliere fino in fondo.

Era come se qualcosa in lei si fosse rotto. Come se il suo equilibrio interiore, che forse era sempre stato fragile ma nascosto dietro tanti sorrisi, si fosse sgretolato. Nessuno di noi, però, se ne era accorto davvero. Lasciò una lettera. C’erano poche parole, ma ogni parola, ancora oggi, pesa come un macigno. “Forse non ce la faccio più a convivere con quest’ansia”.

Forse” … quella parola mi tormenta ancora oggi. Perché dentro un “forse” c’è tutto: il dubbio, la speranza, la paura, l’attesa di qualcuno che arrivi in tempo. Come se fosse stata combattuta fino all’ultimo. Come se fosse bastato un gesto in più. Un messaggio. Un abbraccio.

Il punto è che non eravamo pronti a leggere i segnali, o forse ci sembrava impossibile che una come lei, così piena di luce, potesse davvero pensare di spegnerla.

Mi puoi raccontare com’è stato quel giorno?

Un incubo. Ma uno di quelli in cui speri fino all’ultimo che ci sia un errore. È arrivata una telefonata da una delle sue migliori amiche. Era agitata, preoccupata. Si stava spargendo la voce che qualcuno si fosse buttato dal ponte del nostro paese. Avevano trovato uno zaino. Un nome. Dei dettagli. Ma nulla di confermato.

Nel caos, la speranza resisteva. Ci dicevamo che probabilmente era solo una coincidenza. Ho preso il telefono, ho chiamato una mia amica. Ci siamo incontrati. Avevamo in programma una serata tranquilla, come tante. Invece ci siamo ritrovati con gli occhi lucidi e la testa che rimbombava di silenzi. Per affrontare l’attesa, siamo andati a prendere qualcosa da mangiare. Camminavamo tra gli scaffali come se stessimo recitando una parte che non capivamo.

Poi è arrivata la conferma. È arrivata dalla voce più dura da ascoltare, sua madre. E lì non c’è stato più spazio per il dubbio. Solo dolore. Abbiamo pianto. Tutti insieme. Ci siamo stretti forte. In quel momento non sapevamo esattamente cosa fare, ma sapevamo che nessuno di noi sarebbe dovuto rimanere solo. Oggi posso dire che quella è stata la nostra salvezza. Una sopravvivenza condivisa. Una forma di amore, disperato ma presente.

 

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Fondazione Patrizio Paoletti lavora da sempre sulla prevenzione: quanto pensi sia importante?

Penso che la prevenzione sia determinante. Il dialogo conta, la domanda conta. Sempre. Comunicare e sapere che c’è qualcuno che ci ascolta senza giudicare, senza voler aggiustare, solo per esserci. A volte si ha paura, paura di invadere lo spazio altrui, di sembrare insistenti o pesanti. Spesso non chiediamo per timore di entrare nel dolore degli altri o anche solo per una strana forma di pudore. Pensiamo che il dolore sia qualcosa di privato. Ma è proprio lì che sbagliamo perché l’empatia non è mai invadenza e l’interesse non è mai fuori luogo. Quello che può cambiare, oggi, è il modo in cui scegliamo di esserci per le persone che abbiamo intorno.

Hai trovato modi per ricordarla?

Sì, ne ho trovati. Sono gesti semplici, personali, quasi invisibili agli occhi degli altri, ma per me contano. Sono modi per sentirla ancora vicina, per non farla svanire del tutto.

Ad esempio, ogni volta che vedo qualcosa di Hello Kitty il mio pensiero corre subito a lei. Le piaceva tantissimo. È istintivo, come se il mondo mi lanciasse piccoli segnali per ricordarmi che Kate c’è ancora, in un certo modo.

Ci sono anche alcune canzoni che ascolto e, senza neanche accorgermene, la sento accanto a me che canta, che ride, che fa le sue solite facce buffe. In quei momenti il passato sembra meno distante ed è come se tutto fosse ancora possibile.

Poi a volte scrivo. Frasi sparse, pensieri che non hanno un ordine preciso. Non lo faccio per forza con l’idea di conservare qualcosa, ma perché scrivere mi aiuta a non perdere del tutto ciò che lei ha lasciato dentro di me. È come se scrivendo riuscissi a parlarle ancora un po’.

E poi c’è un luogo che ho in mente, Monte Robbio. Era un posto che le piaceva molto. Non ci sono ancora andato, ma so che lo farò. Ci andrò da solo, un giorno. Non per commemorare qualcosa, ma per pensare. Per mettere in fila tutte le emozioni, per respirare forte e ritrovare un po’ di quella leggerezza che con lei era così naturale.

Cosa credi che le persone debbano sapere sul suicidio giovanile?

Che esiste. Che non è qualcosa di lontano. Che è qui, adesso, e che riguarda più ragazzi e ragazze di quanti siamo disposti ad ammettere. Il suicidio giovanile non è solo una notizia tragica scritta su un giornale. È una ferita reale che attraversa famiglie, scuole, amicizie, comunità intere. Lascia vuoti immensi e domande che non sempre trovano risposta. E soprattutto, non arriva mai all’improvviso. Magari ci sembra così, ma i segnali ci sono. Solo che spesso non li sappiamo riconoscere. Per paura, per imbarazzo, per mancanza di strumenti ed è questo che va cambiato.

Serve educazione emotiva. Serve parlarne, ovunque. A scuola, in famiglia, tra amici, nei luoghi dove i giovani vivono e si formano. Serve anche che genitori, insegnanti, educatori inizino a farsi domande, non con allarmismo, ma con consapevolezza. Parlare non significa alimentare il dolore, significa renderlo visibile. Significa dare la possibilità di essere ascoltati.

Il suicidio giovanile è un tema che riguarda tutto, dalla qualità delle relazioni, alla fatica, alla solitudine e alla paura del futuro. Colpisce chi sopravvive, chi osserva e chi avrebbe voluto fare qualcosa ma non sapeva da dove cominciare. Nel 2025 non possiamo più permetterci di restare in silenzio.


Prima che sia troppo tardi: sostieni la prevenzione

Fondazione Patrizio Paoletti da sempre sviluppa programmi di divulgazione e prevenzione nelle scuole e nelle periferie per proteggere il benessere mentale, a partire dalle giovani generazioni, attraverso protocolli educativi e di autoeducazione sull’alfabetizzazione emotiva e sulla fortificazione delle competenze interiori e relazionali. Con la campagna Prima che sia troppo tardi di Fondazione Patrizio Paoletti puoi contribuire a sostenere la salute mentale e anche a salvare il bene più prezioso, la vita.

    Non temere mai di chiedere aiuto!

    Tutti i contenuti di divulgazione scientifica di Fondazione Patrizio Paoletti sono elaborati dalla nostra équipe interdisciplinare e non sostituiscono in alcun modo un intervento medico specialistico. Se pensi che tu o qualcuno a te vicino abbia bisogno dell'aiuto di un professionista della salute mentale, non esitare a rivolgerti ai centri territoriali e agli specialisti.



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Bibliografia
  • Weaver, ND, Bertolacci, GJ, Rosenblad, E., Ghoba, S., Cunningham, M., Ikuta, KS, … e Hostiuc, S. (2025). Carico globale, regionale e nazionale del suicidio, 1990-2021: un’analisi sistematica per il Global Burden of Disease Study 2021. The Lancet Public Health , 10 (3), e189-e202.
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