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Hikikomori: oltre il silenzio di una porta chiusa

Il coraggio di Chiara, di fronte al ritiro sociale del figlio

Hikikomori. Una condizione complessa e dolorosa, che colpisce non solo i ragazzi che si ritirano dal mondo, ma anche le loro famiglie, lasciandole in balia di emozioni contrastanti: paura, impotenza, senso di colpa. Si tratta di un fenomeno sempre più diffuso anche al di fuori del Giappone, in cui un giovane, sopraffatto da ansie, pressioni sociali e difficoltà relazionali, sceglie l’isolamento volontario.

La storia di Chiara e Paolo

Per un genitore è un’esperienza che toglie il fiato. “Mi sentivo soffocare, non riuscivo a respirare, a riempire i polmoni d’aria. Sentivo un peso enorme addosso che mi schiacciava, era proprio una sensazione fisica. Poi tanta paura, un senso di colpa enorme e la frustrazione perché non riuscivo a trovare il modo per aiutarlo”. Sono le parole di Chiara, mamma di un ragazzo che chiameremo Paolo e che, per un periodo di tempo, ha deciso di chiudere le porte al mondo esterno.

La storia di Chiara e Paolo è un promemoria del potere della resilienza, dell’amore e della speranza. Il percorso di un genitore che affronta il ritiro del proprio figlio è fatto di passi incerti e momenti di sconforto, ma anche di piccoli progressi e gesti di connessione che, giorno dopo giorno, possono fare la differenza.

Questa testimonianza racchiude il dolore di tante famiglie che affrontano ogni giorno il ritiro sociale dei propri figli. Eppure, dietro a questa sofferenza, c’è anche la forza di chi non si arrende, di chi continua a cercare risposte, a tendere la mano, a costruire un ponte verso quei ragazzi che sperimentano un forte disagio.

Non esistono soluzioni immediate né ricette universali per affrontare una situazione così delicata, ma il coraggio di Chiara e di tante altre famiglie dimostra che il cambiamento è possibile. Le porte chiuse non sono mai definitive: dietro di esse si nasconde un universo di emozioni che aspetta solo di essere compreso e accolto. È lì che possiamo iniziare a fare la differenza.

Che bambino era Paolo?

È sempre stato un bambino molto intelligente. Gli piaceva confrontarsi con i più grandi. A scuola aveva buoni voti, ma ha sempre avuto la tendenza a starsene un po’ in disparte. I suoi compagni lo cercavano per giocare, ma lui preferiva stare per conto suo. Alle medie ha iniziato a dirci che non voleva più andare a scuola, accusava spesso mal di stomaco. Abbiamo cercato di approfondire e capire se il problema fosse organico. Poi, col tempo la cosa sembrava un po’ risolta e quindi non ci abbiamo dato peso più di tanto. In seguito ha iniziato a stare male anche quando doveva fare le partite di campionato, giocava a calcio, gli piaceva tanto. Ci diceva che lui preferiva fare esclusivamente le partite di allenamento.

Ricordo che un pomeriggio, prima di una partita, ho dovuto fermarmi tre volte durante quel breve tragitto che da casa ci porta al campetto, perché lui doveva vomitare. Il suo livello di ansia legato alla prestazione che gli veniva richiesta era ingestibile. Gli dicevo che era una cosa normale, che si sarebbe dovuto abituare, che si doveva sforzare. Facile dirlo adesso, ma con il senno di poi, guardando indietro, riesco perfettamente a vedere quei segnali, quei campanelli d’allarme che indicavano che in mio figlio c’era un forte disagio, che non erano capricci, non era pigrizia. Piano piano ha smesso di giocare a calcio e, dopo qualche tempo, anche di andare a scuola.

Quando hai iniziato a comprendere che qualcosa davvero non funzionava?

Le cose sono peggiorate lentamente. Ha iniziato a stare male la mattina, a casa quando doveva prepararsi per la scuola, alla stazione dei treni, prima di arrivare a scuola. A volte, vomitava prima di entrare in classe. D’estate, in vacanza, preferiva stare in camera a leggere, a giocare ai videogiochi o a guardare i documentari. Il malessere, con il passare del tempo, diventava sempre più ingombrante. Poi, in terza superiore, ha deciso che a scuola non ci sarebbe più andato. Col senno di poi, posso dire che i campanelli d’allarme erano tanti, ma non li ho colti subito. All’inizio pensavo fosse una cosa normale, che fosse un po’ fragile e che si sarebbe dovuto abituare lentamente alle novità e alle pressioni sia in ambito scolastico che sportivo. Nessun genitore immagina che dietro ad un “piccolo” disagio ci sia qualcosa di più grave, qualcosa di così tanto profondo.

Quando ha iniziato il ritiro sociale Paolo? Quali sono state le emozioni predominanti che hai provato come genitore?

È stata una cosa molto graduale, si è ritirato dallo sport, dalle relazioni in presenza con i compagni mantenendole online, fino al ritiro dalla scuola. I segni più evidenti, anche se in passato ce ne erano già, li ho visti durante il primo anno delle superiori.

La sensazione che io ricordo benissimo è quella di soffocare, di non riuscire a respirare. Non riuscivo a riempire i polmoni di aria. Avevo un peso enorme addosso che mi schiacciava. Avevo una paura terribile mista a senso di colpa, frustrazione e delusione perché non riuscivo a trovare il modo per aiutarlo. Mi sentivo un genitore incapace. Ero l’unica ad avere questo problema? Ero io il problema? Non ero stata capace di far crescere mio figlio nella maniera corretta? Provavo un forte senso di solitudine, un peso enorme che quasi mi bloccava. Avevo la sensazione di stare affogando. Cercavo di capire, ma non ci riuscivo.

Queste sensazioni mi hanno accompagnato fino a quando non ho iniziato a parlare con altri genitori dell’Associazione Hikikomori Italia Genitori. Dal momento in cui ho parlato con loro, mi sono resa conto che stavamo vivendo le stesse cose. Ad un tratto mi sono sentita più leggera, mi è sembrato che questo masso enorme che sentivo addosso si fosse sollevato un po’. Non ero più sola, avevo qualcuno con cui poter parlare e che mi capiva. Avevo forza per andare a fondo, avevo finalmente una motivazione per iniziare un cammino verso la salvezza perché altri ce l’avevano fatta. La vicinanza di altre persone con la stessa problematica mi ha aiutato a anche centrare un po’ di più il disagio che mio figlio stava provando e a capire cosa avrei potuto fare o evitare di fare per aiutarlo.

Quali sono stati i momenti più brutti che hai vissuto con tuo figlio?

Momenti ce ne sono stati tanti. Una delle cose che mi faceva più male era vederlo perennemente con lo sguardo perso. Paolo girava in casa con tute larghe e con le cuffiette nelle orecchie. Non mi guardava mai negli occhi e aveva sempre un’espressione triste, sofferente. Non lo vedevo mai ridere, la sua allegria era sparita. Era come se fosse un dolore cronico che provavamo entrambi, lui vivendolo e io vedendolo sempre in quelle condizioni. Trascorreva molto tempo in camera, spesso pranzava e cenava lì.

Ci sono stati dei momenti in cui lui è stato verbalmente molto aggressivo, molto violento a parole. Mi ha accusata di tutto e di più. Diceva “non ti voglio più vedere, non sei mia madre, non ti voglio come madre, devi sparire dalla mia vita”. Parole che fanno male, molto male. Ero io il suo bersaglio, ero lì, a portata di mano. Solamente quando ho imparato a lasciarmi scorrere addosso queste sue esplosioni di rabbia, quando ho capito che non erano rivolte a me, ma ero semplicemente la persona a lui più vicina su cui poteva sfogarsi,  lui ha iniziato a ridurle perché abbiamo trovato un modo diverso di comunicare di relazionarci. Nel tempo, Paolo è riuscito a indirizzare un po’ meglio questa sua rabbia.

Una volta mi ha raccontato di essersi fatto dei tagli sulle braccia. È stato molto difficile: era come se mi avessero tirato un pugno nella pancia. Ma altri genitori mi avevano spiegato che i ragazzi che soffrono  – non necessariamente hikikomori – a volte lo fanno. Avevamo già raggiunto un buon livello di dialogo e quando me l’ha raccontato gli ho chiesto come si era sentito dopo essersi tagliato. Mi ha detto che per un po’ si era sentito bene. Il dolore fisico anestetizza il dolore emotivo e soprattutto è un dolore con una causa visibile e quindi più gestibile.

Che ruolo ha internet nella vita di Paolo?

Internet per un ragazzo in ritiro è una porta sul mondo, è quel mezzo che gli resta per comunicare con l’esterno, con quello che c’è al di là delle quattro mura della camera. Non è internet che provoca l’isolamento. Esistono dei ragazzi in ritiro che non sono interessati al computer, neanche al telefono e stanno in camera a leggere. I ragazzi non stanno a casa per poter giocare. Stanno a casa perché non riescono ad affrontare il peso insopportabile che provano quando sono in società, quando stanno in mezzo ai loro pari, quando sono a scuola, quando sono in mezzo alle altre persone.

Fanno fatica anche a reggere le aspettative che sentono da parte dei loro familiari, da parte dei genitori e l’insieme di tutto diventa un peso enorme per loro. Non riescono ad affrontarlo e, di conseguenza, cercano una modalità di vita che sia un po’ meno di sofferenza. Eliminano tutto quello che non riescono ad affrontare.

Chiusi in camera fanno le attività che hanno a disposizione, non sono tantissime, ma non ci sono solamente i videogiochi, ci sono anche i documentari, c’è la lettura. Loro continuano ad informarsi. Ricordiamoci che i ragazzi in ritiro sociale hanno un’enorme difficoltà a relazionarsi con i loro coetanei, sentono molto forte il giudizio da parte loro, come se fosse una lama rovente. Internet dà loro la possibilità di confrontarsi con dei coetanei, ma non di fronte a loro, bensì attraverso un mezzo che filtra un pochino. In questo modo riescono comunque a stare in relazione con altre persone.

La consapevolezza di essere in grado di collaborare con i compagni di gioco online può essere una cosa che non hanno mai vissuto e sperimentato nella realtà, in presenza: è un’esperienza importante a cui possono attingere in futuro. È un’occasione di crescita. Poi sappiamo bene che ci sono sicuramente dei problemi con Internet, ma per i ragazzi Hikikomori non è da demonizzare.

Quali strategie hai messo in atto per gestire la quotidianità con tuo figlio?

Io ho il vantaggio che anni fa giocavo ai videogiochi e per me è stato un mezzo per poter parlare con lui. Non parlavamo di altre cose, parlavamo solo dei giochi, ma era uno spazio dove comunque riuscivamo a fare qualcosa insieme. Poi ho anche cercato di azzerare qualunque aspettativa nei suoi confronti. Non importava se lui faceva delle cose che secondo me non andavano bene, non importava se lui non faceva le cose che io mi sarei aspettata. Ho un elenco lunghissimo di cose che prima sarebbero state importanti da sottolineare, ma ora non esistono più. Cambiarsi, lavarsi, riordinare la camera e, sulla falsa riga, mille altre cose, non sono più prioritarie. La sua camera è una grotta inguardabile? Va bene così. Sta alzato tutta la notte per giocare? Dormirà di giorno.

La cosa più importante, soprattutto all’inizio, è ritrovare un dialogo e far capire che loro vanno bene così come sono. Rimanere in ascolto, un ascolto attivo. Far capire loro che ci siamo, che non siamo giudicanti nei loro confronti, che siamo lì ad accoglierli. Poi, evidentemente, è un percorso molto complicato e non privo di ostacoli, non è semplice come quando lo si racconta.

Un’altra cosa importante per me è stata togliere la mia attenzione costante dal suo malessere e cercare di recuperare le cose che fanno bene a me come persona, ritrovarmi e non vedermi solo più come la mamma di qualcuno. Ho fatto tantissime passeggiate con i miei cani, una cosa che mi metteva di buon umore, mi faceva stare meglio. Gli ho lasciato lo spazio e il tempo di cui lui aveva bisogno. Io c’ero lo stesso, però la mia vita la portavo avanti. Ho recuperato i miei bisogni e in tutto questo io ho avuto da lui dei riscontri molto positivi. Paolo ha iniziato a dirmi che era contento di vedere che facevo delle cose per me.

I nostri figli soffrono a vederci soffrire, si sentono ancora più in colpa e avvertono ancora più quel peso che crea loro tantissima sofferenza. Sentono di essere sbagliati, di non rispondere alle aspettative che noi abbiamo su di loro. Non dobbiamo far sentire loro il carico di responsabilità che deriva dalla nostra sofferenza. Dobbiamo essere un esempio, far loro comprendere, non solo a parole, che là fuori c’è qualcosa di bello, c’è qualcosa che può farli stare meglio.

Cosa consiglieresti ad altri genitori che si trovano nella tua stessa situazione?

Sicuramente di cercare supporto con associazioni che li mettono in contatto con altri genitori perché è fondamentale riuscire a togliere quella sensazione di isolamento. Di solito, amici, parenti e conoscenti che non conoscono bene la situazione tendono a dare una serie di consigli che, se va bene, sono consigli che non servono a niente, se va male, sono dannosi e peggiorano la situazione. Per alleviare il senso di colpa e di inadeguatezza, il confronto con altri genitori che vivono la stessa situazione è importantissimo perché permette di normalizzare, di centrare un po’ meglio la situazione quindi riuscire anche a vederla un pochino più razionalmente.

Il confronto con chi vive la tua stessa situazione, o anche situazioni più critiche, relativizza un po’ le cose e aiuta a ritrovare la speranza. Ascoltare i genitori che sono più avanti nel percorso dei figli e che possono testimoniare che c’è una luce in fondo al tunnel, ti dà coraggio, motivazione. Ti insegna ad avere pazienza. Tutti vorremmo risolvere in fretta il problema sia per noi che per loro, ma non funziona così. Il tempo del miglioramento è un tempo che viene deciso dai nostri figli e quindi dobbiamo accettarlo.

Chi è oggi Paolo?

Io credo che mio figlio abbia fatto un grosso lavoro su se stesso. Frequenta una scuola serale, ha iniziato da poco ma sono fiduciosa, andiamo a fare la spesa insieme e, a volte, ci va anche da solo. Adesso ride, ride spesso e si diverte. Non ha problemi a stare in mezzo alle persone. Piccoli, grandi passi in avanti. Oggi sono felice per lui, felice per qualsiasi cosa riuscirà a fare o vorrà diventare. Non ho aspettative. Non mi sento più soffocare, oggi, non vedo più il tunnel, vedo solo la luce.

Un percorso verso una salute globale

Come Ente vogliamo ringraziare la disponibilità della signora Chiara per la preziosa testimonianza, da cui si evince tutta l’importanza del percorso che lei stessa, come genitore, ha fatto e sta facendo accanto al figlio, che può essere d’esempio, fonte di ispirazione e speranza per tutte quelle famiglie che ogni giorno sperimentano ancorala sfida dell’isolamento volontario. I genitori possono sempre fare riferimento a enti come Fondazione Patrizio Paoletti che, attraverso la ricerca, crea protocolli e strumenti che possono cambiare la vita delle persone, insegnando a riconoscere segnali attraverso un’educazione di eccellenza e sensibilizzazione, per arrivare prima che sia troppo tardi.

Fondazione Patrizio Paoletti sostiene genitori e figli, insegnanti e personale scolastico, con progetti psicopedagogici nelle scuole, come Prefigurare il Futuro, un percorso formativo per imparare ad affrontare le crisi e gli imprevisti, trasformando le difficoltà in determinazione e coltivando le dieci chiavi della resilienza, per una salute globale di tutta la famiglia.

    Non temere mai di chiedere aiuto!

    Tutti i contenuti di divulgazione scientifica di Fondazione Patrizio Paoletti sono elaborati dalla nostra équipe interdisciplinare e non sostituiscono in alcun modo un intervento medico specialistico. Se pensi che tu o qualcuno a te vicino abbia bisogno dell'aiuto di un professionista della salute mentale, non esitare a rivolgerti ai centri territoriali e agli specialisti.

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