Skip to main content

Intervista a Walter Allievi: la resilienza e la forza di ricominciare dopo l’incidente

Sogni, mare e la resilienza di un’anima libera

La vita, fino a quel momento, mi aveva abituato a cavalcare le onde, ad affrontare le sfide, a sentire il vento in faccia, ma sempre con la convinzione di avere il controllo. Non avevo mai contemplato l’idea di trovarmi nudo, senza scudo, davanti a un abisso”. Di resilienza e di forza di ricominciare si parla spesso, ma non sempre se ne conosce il vero significato. Forse bisogna attraversarla per comprenderla davvero. Oppure, si può iniziare ad afferrarla ascoltando storie come quella di Walter Allievi, che resiliente lo è diventato per necessità. Una necessità imposta da una vita che, a un certo punto, si è interrotta bruscamente, lasciandolo sospeso. Una vita che poi, con prepotenza, ha reclamato il diritto di ricominciare.

Walter, com’era la tua vita prima dell’incidente? Che sogni avevi, cosa ti rendeva felice?

La mia vita, prima dell’incidente, era piena. Piena di amici, di mare, di vento, di sogni tracciati sulle onde. A 29 anni avevo già vissuto molto. Avevo smesso con l’agonismo a 23, ma non con la vela: era la mia passione, il mio mondo. Il mare, le barche, la libertà.

Ma c’era anche altro. Su consiglio di mio padre, “Studia, che non si sa mai”, mi sono laureato in Economia alla Bocconi. Un percorso che, in fondo, sentivo più come il sogno di mio padre che il mio. Ma lo avevo fatto, un po’ per incoscienza, un po’ per rispetto e, forse, anche per senso del dovere.

Ero una persona allegra, sicura di me, tendenzialmente positiva. Diciamo che all’alba dei trent’anni mi sentivo in una fase di tardiva adolescenza. Avevo messo in pausa la carriera sportiva e mi stavo godendo tutte quelle “cavolate” che, come un bravo atleta disciplinato, non mi ero mai concesso da ragazzo. La mia giovinezza era stata una maratona di allenamenti, le mie giornate erano scandite da allenamenti e regole.

Ma a 25 anni, qualcosa si era rotto. Non in me, ma attorno a me. Un’ombra si allungò sulla nostra famiglia: mio padre fu vittima di un incidente gravissimo, lasciandolo invalido al cento per cento. Di colpo, il ruolo di figlio si intrecciò indissolubilmente con quello di caregiver. Insieme a mia madre, mi presi cura di lui, mentre cercavo disperatamente di tenere in rotta la mia vita.

Raccontaci il giorno dell’incidente

Mi sono laureato tre mesi prima del mio incidente. Avevo chiuso tutti i capitoli del passato: niente più vela professionistica, niente più sogni altrui. Volevo capire cosa fare davvero della mia esistenza. Ma d’improvviso tutto si è fermato.

Era il 3 luglio, una di quelle giornate di piena estate, profumate di salsedine e promesse. Con i miei amici eravamo andati a Varazze per cavalcare le onde. Quattro ragazzi, le tavole sul tetto e il sole ancora alto mentre rientravamo a Milano. Eravamo tutti sulla stessa barca, quella della vita, del lavoro, delle prime vere responsabilità. Michele, quella sera, aveva fretta. Era un architetto, aveva un appuntamento di lavoro improrogabile. Guidava la mia macchina, aveva qualche anno più di me, trentatré all’epoca. “Guido io,” aveva detto, “che ho un appuntamento alle 2”. E a me andava bene, non avevo voglia di mettermi al volante.

Cosa sia successo dopo, non te lo so dire con precisione. Ero seduto dietro, immerso nella lettura di un quotidiano. Poi ho sentito la voce di Matteo, seduto davanti, accanto a Michele: “Attento, Mik! Attento, Mik!”

In una frazione di secondo ho pensato: attento a cosa? Non ho avuto il tempo di formulare verbalmente la domanda. Ho solo sentito la macchina sbandare, una sensazione che mi ha gelato il sangue. Eravamo all’altezza di un punto che conoscevo bene, una curva maledetta tra un campo e il guardrail. La macchina ha cominciato a fare una danza folle sull’asfalto. Ho visto Michele che cercava disperatamente di riprendere il controllo, ma era troppo tardi.

D’istinto, mi sono preparato all’impatto. Mi sono puntellato, ho appoggiato la gamba destra sul tunnel centrale dell’auto, mi sono aggrappato con tutta la forza alla maniglia del tettuccio. Ricordo nitidamente di aver pensato: “Speriamo di non farci troppo male”. Ho chiuso gli occhi, aspettando il botto.

Invece, la macchina ha fatto qualcosa di surreale. Sembrava decollare. La stessa sensazione che si prova al decollo di un aereo, quella spinta inarrestabile verso l’alto. Eravamo tutti in aria. Lì, in quel momento sospeso, ho capito. Avevamo saltato il guardrail. Eravamo finiti sulla corsia opposta, contro il traffico. “Che pessima morte” ho pensato, un lampo di cinismo nel terrore. Poi, il buio.

Mi sono svegliato in un caos indescrivibile, un circo di orrore e sangue. Ho riaperto gli occhi, incredulo. La mia gamba destra era spaccata, il femore che mi guardava, sporgendo dalla carne lacerata. Era piegata lateralmente, appoggiata alla mia destra. Intorno a me, brandelli, pezzi di tutto, un’immagine infernale. Ho solamente flash di ciò che mi circondava. Uno dei miei amici era spinto verso il basso, immobile. L’altro, davanti, non riesco nemmeno a descriverlo. Troppo rumore, troppo caos. E poi io, il mondo che girava.

La mia mente è stata invasa dal panico, puro e primordiale. Con una forza che non sapevo di avere, nonostante la gamba distrutta, mi sono tirato fuori dalla macchina. Mi sono girato, la macchina semi-rovesciata. Ho visto la possibilità di uscire dal baule. Ho girato la gamba, e mi sono trascinato fuori, lasciandomi dietro una scia di sangue. La gamba, un ammasso informe. Ma l’adrenalina, ah, l’adrenalina, con quella riesci a fare qualunque cosa. Non sentivo niente, la priorità era solo scappare. Il cervello era in una totale esplosione, un attacco di panico misto a stupore, un’emozione così soverchiante che non riesco nemmeno a darle un nome.

Pensavo di essere ancora in mezzo alla strada, temevo che ci venissero addosso altri veicoli. Solo dopo ho capito che eravamo già stati investiti. Nell’abitacolo io ero l’unico in un punto dove un essere umano sarebbe potuto rimanere intero. Per qualche motivo, il mio corpo non era stato disintegrato come il resto.

C’era un camion parcheggiato sulla corsia di emergenza dall’altra parte, e un ragazzo, in moto, con una moto grossa, si era infilato nella nostra macchina, tagliando la parte dove era seduto il guidatore, passando sopra di me, uscendo dall’altra parte. Quando sono uscito dalla macchina, mi sono ritrovato a scavalcare la moto. In quel momento, ho pensato alla scarsa dignità che a volte la morte ti riserva.

Avevi mai pensato, prima dell’incidente, a come avresti reagito di fronte a una difficoltà?

Avevo mai pensato a come avrei reagito di fronte a una difficoltà insormontabile, a un bivio che ti strappa il fiato e ti getta nel buio? Se devo essere sincero, no. Mai in modo lucido, mai con quella fredda chiarezza che solo il senno di poi può offrire. La vita, fino a quel momento, mi aveva abituato a cavalcare le onde, a dominare le sfide, a sentire il vento in faccia ma sempre con l’ingenua convinzione di avere il controllo. Non avevo mai contemplato l’idea di trovarmi nudo, senza scudo, davanti a un abisso. Così, almeno. Non con l’urgenza brutale e la disperazione che avrei poi conosciuto. Pensavo di essere pronto a tutto, ma la verità è che nessuno è mai davvero pronto per il terremoto che ti sconvolge le fondamenta, quello che ti costringe a ricostruire te stesso pezzo per pezzo, nell’oscurità più profonda.

 


    OGNI FIRMA CONTA,
    SOPRATTUTTO LA TUA.

    Dona il tuo 5x1000
    a Fondazione Patrizio Paoletti
    CODICE FISCALE 94092660540


    5x1000 promemoria SMS

    "*" indica i campi obbligatori

    I tuoi dati*
    Privacy Policy*

 

Qual è stato il momento più difficile della riabilitazione?

Allievi surfa sul mareHo navigato in un mare di alti e bassi allucinanti dopo l’incidente, ma la bussola della mia mente indicava sempre un unico, chiarissimo obiettivo: volevo riappropriarmi della mia gamba, volevo che tornasse a essere mia. All’inizio, la gravità della situazione mi era sfuggita, mi avevano paventato la probabilità di amputazione.

Non so spiegarti a parole, ma ero animato da una fiducia incrollabile, una certezza viscerale che, in qualche modo, ce l’avrei fatta. Sapevo però che non sarebbe stata una vittoria solitaria. Ero circondato, no, ero sostenuto da una rete di persone incredibili. In primis, la mia allora fidanzata che ora è mia moglie. Non so come abbia fatto, ma è rimasta salda al mio fianco, in un limbo, sospesa con me. Mia madre, in quel momento, doveva prendersi cura di mio padre, totalmente invalido. Io, bloccato in un letto, una gabbia di metallo attaccata alla mia gamba. Senza di lei, non so come avrei superato quei sei mesi, bloccato lì, immobile. Lei si prendeva cura di me, era la mia ancora, la mia roccia.

E poi ho trovato le persone giuste. Fortunatamente, grazie all’ambiente sportivo che ho sempre frequentato, avevo i contatti giusti, sapevo a chi chiedere, sapevo a chi affidarmi. Alla fine, venni operato a Varese. Ero lì, con quel fissatore esterno appeso alla gamba, una roba che sembrava un’opera d’arte astratta piuttosto che uno strumento medico. La mia gamba era quasi un corpo estraneo, una “grossa salsiccia” come la chiamavo io, perché mancava tutta una serie di tessuti e innesti che servono a farla funzionare. Avevo tre arti che rispondevano, e poi c’era questa appendice inerte.

Le parole del professore che mi ha operato furono un balsamo per l’anima. “Ci vorrà tempo,” disse, “ma, secondo me, tu puoi tornare a correre”. Quelle parole risuonano ancora dentro di me. Non era una promessa certa, non una garanzia che tutto sarebbe tornato come prima, ma in quell’incertezza, c’era la scintilla della speranza.

Da quel momento, ogni dubbio si è dissipato. Nella mia testa, era tutto chiaro: sì, ce l’avrei fatta. C’era da soffrire? Bene, si soffriva. C’era da fare sacrifici? Bene, si facevano. Abbiamo provato di tutto, ogni terapia, ogni intervento, prima di riuscire a “riattaccare” quella maledetta gamba che sembrava non volerne sapere di guarire.

Ci sono stati momenti di dolore puro e lancinante durante la riabilitazione. Ricordo quando mi tolsero alcune viti che tenevano il fissatore esterno. Mi avevano detto che sarebbe stata una passeggiata. Una passeggiata? Quelle viti erano piantate nell’osso, uscivano dalla gamba come piccoli demoni. Le toglievano con delle maniglie, un male che ti toglie il fiato.

E poi c’è stato il processo per allungare la gamba. Mi hanno inserito un chiodo endomidollare nel femore, un perno d’acciaio che permette alla gamba di “basculare” correttamente durante la camminata. Il problema è che, nel mio caso, si bloccava. Così, mi hanno piantato delle “maniglie”, una nel ginocchio e una sopra la coscia. Ogni giorno, manualmente, allungavo la mia gamba di 0,3 millimetri. Un mese di pura agonia, un dolore difficile da descrivere. Volevo tornare a essere intero, non “uguale” a prima, perché un pezzo di me era cambiato per sempre, ma con la gamba lunga come prima. L’obiettivo era quello, tornare a stare in piedi, a camminare, a correre, a surfare. Ho lottato per otto anni per questo, ma ci sono riuscito.

Cosa ti ha salvato?

C’è una componente di fortuna mostruosa in tutto questo, non lo nego. Non è stata solo la mia bravura. Ho trovato le persone giuste, non ho avuto infezioni, le cure alla fine hanno funzionato. Anche io ci ho messo del mio, con quella testa da atleta che mi ha sempre contraddistinto. Il lavoro che ho fatto su me stesso, la capacità di soffrire. Non ho paura di soffrire. Non so se adesso avrei la forza di ripassarci in mezzo un’altra volta, ma in quel momento, cosa potevo fare? La mentalità dell’atleta mi ha salvato.

Hai mai perdonato il destino?

Non riesco a conciliare l’idea che esista un piano preordinato che decida chi vive e chi muore. Credo fermamente nel caos. Penso che la vita sia un sistema complesso dove, in casi particolari e imprevedibili, emerge un’interazione caotica. E io, in quel grande, immenso caos, ci sono finito in mezzo. Per questo, non c’è nulla da perdonare. Non è questione di colpa, né di redenzione. Non c’è una divinità o un’entità a cui rivolgere perdono.

Certo, dentro di me c’è il dispiacere, c’è il peso immenso della perdita. La perdita dei miei amici è una croce che porto, una sofferenza che non mi abbandona mai. Ma non è un atto di perdono ciò che mi serve. È accettazione, forse, o semplicemente il fardello di un’esistenza che, a volte, si tinge di un’oscurità inspiegabile. La vita, a volte, sembra una lotteria crudele, un lancio di dadi le cui regole non ci sono state spiegate. Non so come funzioni, magari lo scoprirò quando sarà il mio turno.

Ho sicuramente dovuto imparare a perdonare nella mia testa, ma non ho mai realmente nutrito rancore verso chi guidava. Non posso fare a meno di volergli bene. La battaglia più difficile, però, è stata perdonare chi è rimasto in vita e, nel proprio dolore, se l’è presa con me. Credo di esserci riuscito, di aver raggiunto una qualche forma di pace, perché ho visto con i miei occhi cosa può fare la sofferenza. L’ho vista scavare solchi profondi, trasformare le persone in modi inimmaginabili.

È la sofferenza di un genitore che perde un figlio la cosa che mi spaventa più di ogni altra. È l’unica vera paura che porto con me. Ho visto padri e madri comportarsi in modi che mai avrei pensato possibili, mossi dal dolore e dalla sofferenza. La perdita di un figlio è il dolore che non perdona, quello che ti insegna l’umiltà più profonda e il rispetto più grande per la fragilità dell’esistenza.

Hai trasformato il dolore in qualcosa di utile per gli altri

Spesso, le persone mi dicono che la mia storia, il modo in cui ho affrontato le mie difficoltà, le ha aiutate ad attraversare i loro momenti bui. Può darsi. Oggi, ho molte meno certezze di qualche anno fa. Perché, sai, quando recuperi da incidenti così devastanti, a volte ti viene una certa arroganza. È la parte più insidiosa. Ne ho parlato con altri sopravvissuti, persone che hanno vissuto esperienze simili. Inizi a sentirti invincibile, convinto di aver fatto cose che gli altri non capiranno mai, che non faranno mai. Ti senti superiore, quasi un eletto.

Ma poi, a un certo punto, ti rendi conto che finché ti senti migliore degli altri, finché ti poni su un piedistallo, non puoi davvero tendere una mano, non puoi offrire un aiuto genuino. Perché l’empatia nasce dalla comprensione reciproca, non dalla distanza. L’elaborazione di tutto questo, dal trauma al recupero, alla crescita e alle inevitabili derive dell’ego, è un processo continuo, una battaglia che si combatte ogni singolo giorno. È un viaggio ancora aperto che forse non si concluderà mai del tutto, ma è proprio in questa consapevolezza che risiede la vera forza.

Cosa significa per te resilienza?

Se la resilienza dovesse essere racchiusa in una sola parola, per me sarebbe senza dubbio: affetti. Perché, in fin dei conti, un individuo diventa veramente resiliente solo quando è immerso in un contesto sociale che gli fornisce la forza necessaria.

Non si tratta di una qualità innata o di una tecnica che si può imparare da soli e applicare in isolamento. La vera capacità di rialzarsi, di affrontare le avversità e di superarle, nasce dalla consapevolezza di avere persone al proprio fianco che ti amano e che credono in te. È quel sostegno invisibile, ma incredibilmente potente, che ti spinge avanti quando le tue forze sembrano esaurite. Sono gli sguardi, le parole, i gesti di chi ti vuole bene che costruiscono quella rete di sicurezza emotiva senza la quale ogni caduta sembrerebbe definitiva. Senza questo tessuto di relazioni, senza gli affetti che ti avvolgono e ti nutrono, la strada della ripresa sarebbe infinitamente più ardua, se non impossibile.


L’importanza delle relazioni

Ringraziamo Walter per questa preziosa testimonianza di forza di volontà e resilienza, oltre che della centralità delle relazioni di qualità nell’affrontare le sfide della vita, anche quelle più difficili. Fondazione Patrizio Paoletti investe nell’educazione emotiva e relazionale a tutte le età, in particolar modo negli adolescenti, in programmi come Prefigurare il Futuro e Oltre le Periferie, per accompagnarli nello sviluppo delle risorse interiori e delle competenze affettive e relazionali, per coltivare benessere, salute globale e relazioni sane, basate sull’equilibrio, l’empatia, la comprensione e il supporto reciproco. Come ci insegna Walter, rialzarsi dalle cadute, anche le più gravi, è possibile. E la rete degli affetti ci sostiene per riabbracciare la vita e tornare a essere felici.

 

Sii parte del cambiamento. Condividere responsabilmente contenuti è un gesto che significa sostenibilità

Alleniamo l'intelligenza emotiva: che emozione ti suscita questo articolo?

Potrebbe interessarti

La ricerca sulla Resilienza Sferica durante la pandemia

Gli educatori che operano nelle carceri minorili svolgono un compito estremamente prezioso e impegn…

Un legame patologico: la prigione invisibile di Miriam

L'amore, si dice, è un sentimento che libera, unisce, eleva. Ma cosa succede quando si trasforma in…

    Iscriviti alla newsletter

    NEWSLETTER GEN

    Modulo per l'iscrizione alla newsletter FPP

    Nome(Obbligatorio)
    Email(Obbligatorio)
    Privacy Policy(Obbligatorio)
    Questo campo serve per la convalida e dovrebbe essere lasciato inalterato.
    Exit mobile version