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Come reagiamo alle difficoltà? Il cervello resiliente. Parte II

Segue da “Come reagiamo alle difficoltà? Il cervello “resiliente”. Parte I”

Nella prima parte dell’articolo abbiamo introdotto il concetto di resilienza” che descrive, in ambito psicologico, un processo dinamico che permette all’essere umano di adattarsi positivamente ad una situazione avversa. Tale adattamento permette a tutti noi di uscire notevolmente rafforzati dalle prove che la vita ci presenta.

In ambito neuroscientifico, come abbiamo già detto, la resilienza è oggetto di forte interesse da parte di numerosi ricercatori. Essi hanno dimostrato, fin ora, che esistono fattori biochimici, genetici e comportamentali che operano insieme per ripristinare il nostro equilibrio emotivo dopo un forte stress psicologico.

In una situazione di difficoltà, il nostro cervello, ed in particolare l’ipotalamo, che collega il sistema nervoso al sistema endocrino, produce un segnale di stress (ormoni), una “cascata” chimica che ci spinge a difenderci o a fuggire da quella determinata situazione. Il cortisolo, uno di questi “ormoni dello stress”, può danneggiare seriamente le cellule cerebrali dell’ippocampo e dell’amigdala, regioni coinvolte nei processi di memoria e nelle emozioni, al punto da recare gravi conseguenze al nostro equilibrio psico-fisico.

La resilienza va a bloccare questo processo. Aiutati da particolari sostanze biochimiche protettive, infatti, gli ormoni dello stress sembrano disattivarsi più rapidamente nelle persone resilienti.

Gli scienziati hanno individuato alcune di queste sostanze: il DHEA (deidroepiandrosterone), che riduce gli effetti del cortisolo, e il neuro peptide Y, capace di ridurre anche l’ansia. Nel maggio 2010, il prof. Eric Nestler del Mount Sinai Medical Center di New York ha scoperto che una proteina (DeltaFosB) rende i topi più resilienti di fronte allo stress prodotto da solitudine o minaccia, inducendolo a ipotizzare che ciò possa essere valido anche per l’uomo.

Al di là di curiose applicazioni futuribili di questi studi (qualcuno ha già immaginato una bevanda a base di DeltaFosB in grado di aumentare la resilienza), è davvero molto importante comprendere che alla base della possibilità di orientare positivamente la nostra vita esiste una predisposizione biologica “positiva”, comune a tutti gli esseri umani.

Tale inclinazione naturale può essere “allenata”, ovvero è possibile educare ed educarsi alla resilienza.

Esattamente come quella della memoria, o dell’attenzione, la “funzione psichica” della resilienza si modifica nel tempo in rapporto all’ambiente sociale, alle relazioni con gli altri, all’esperienza, ai vissuti e al modificarsi dei meccanismi mentali che la sottendono.

Susanna Kobasa, psicologa presso l’Università di Chicago, ha individuato tre tratti della personalità umana direttamente collegati ad un cervello “più resiliente”: la capacità di impegnarsi per raggiungere uno scopo, l’inclinazione a tenere sotto controllo le azioni e gli eventi in cui si è coinvolti, il gusto per le sfide.

Di queste tre caratteristiche personali possiamo avere consapevolezza, dunque possiamo coltivarle e trasmetterle agli altri.

Non è un caso, ad esempio, che alcune delle più grandi menti del nostro tempo, che hanno offerto il loro contributo alla campagna “Ogni uomo è un educatore” della Fondazione Paoletti (i premi Nobel D. Gross e W. Clark II, il celebre neuroscienziato M. Gazzaniga e altri prestigiosi nomi della scienza, del giornalismo, dell’arte, dello sport, ecc.), ci abbiano parlato di impegno, determinazione, capacità di cambiare e raccogliere le sfide, come di imprescindibili chiavi del successo.

Il protocollo di ricerca che la Fondazione Patrizio Paoletti ha attivato in collaborazione con l’Università degli Studi di Padova nel 2010 intende indagare proprio la possibilità di “allenare” la resilienza e aumentare l’autoefficacia nell’individuo, fattori determinanti per il suo successo e la sua realizzazione.

Il consistente corpus di ricerche che ha permesso di ampliare la comprensione dei processi di resilienza e dei sistemi di adattamento umani ha fornito un sostanziale contributo applicativo allo sviluppo di pratiche educative.

Comprendere che tutti siamo programmati per essere resilienti e che tutti possiamo educarci ad esserlo è fondamentale, soprattutto guardando alle future generazioni. Se la resilienza si può apprendere, possiamo anche insegnarla ai nostri bambini.

E proprio grazie alla ricerca scientifica oggi siamo più consapevoli di quali azioni didattiche siano più idonee a sviluppare, specialmente in età evolutiva, quelle capacità che consentono ai bambini di essere resilienti e, di conseguenza, di avere maggiori chance di successo in futuro.
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Bibliografia

 

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